Uscita dall’euro? Benvenuti all’inferno
Una eventuale uscita dell’Italia dall’euro avrebbe gravi conseguenze. Gli investitori esteri abbandonerebbero il nostro paese e si avrebbe una forte riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, con effetti su consumi e attività produttiva. Scenari peggiori con la dissoluzione della moneta unica.
I pericoli della fase transitoria
La vittoria del “no” nel referendum sulla riforma costituzionale – che, tra l’altro, rafforza i movimenti anti-establishment – e prima ancora l’esito della consultazione sulla Brexit riportano alla ribalta la richiesta di alcuni settori politici di un’uscita del nostro paese dall’euro.
I sostenitori della proposta ritengono che l’Eurozona sia un’area valutaria non ottimale perché include paesi troppo diversi, in cui la rigidità di prezzi e salari porta a una perdita di competitività di quelli con strutture industriali più fragili e la politica monetaria comune non tiene conto delle diversità delle economie nazionali. Ma le conseguenze su stabilità finanziaria, bilancio pubblico ed economia reale sarebbero gravi. Vediamo perché.
Ci sarebbe un deflusso di capitali e una corsa agli sportelli per evitare che titoli e depositi vengano convertiti a un tasso di cambio penalizzante rispetto a quello di mercato. Si potrebbero contrastare con limiti ai prelievi, divieto di acquistare attività estere o di rimpatriare i capitali per i non residenti. Ma si tratta di misure radicali difficilmente attuabili, in contrasto con le norme UE sulla libera circolazione dei capitali.
L’unica alternativa è quella di introdurre una fase transitoria di doppia circolazione monetaria. La raccolta bancaria (depositi e obbligazioni) rimarrebbe denominata in euro e le banche aprirebbero un nuovo conto sul quale accreditare i pagamenti in valuta locale (come stipendi o pensioni). Entro il periodo transitorio depositi e obbligazioni devono essere convertiti ai tassi di mercato. Gli impieghi bancari a residenti (mutui e prestiti) vengono ridenominati in valuta domestica, per evitare che imprese e famiglie siano esposte a debiti insostenibili.
Questa soluzione evita la corsa agli sportelli, ma trasferisce tutto il rischio di cambio sul sistema bancario (che avrebbe passività in euro e attività convertite in valuta domestica a un cambio potenzialmente penalizzante), con analoghi effetti dirompenti sulla stabilità finanziaria.
Tali effetti potrebbero essere mitigati prevedendo che le obbligazioni bancarie disciplinate dal diritto nazionale siano convertite in valuta locale. Vi sarebbero forti vendite per tenere il ricavato sui depositi che rimarrebbero denominati in euro e le quotazioni crollerebbero fino a incorporare la svalutazione attesa. Gli investitori esteri subirebbero perdite e i residenti vedrebbero ridotto il potere d’acquisto della loro ricchezza (esempio: un’obbligazione in euro che quota a 100 con una svalutazione attesa del 50 per cento quoterebbe a 67 durante il changeover (100/1,5); dopo la conversione con un cambio 1:1 tornerebbe a quotare 100 nella nuova valuta, ma con un cambio di mercato di 1,5 a 1 avrebbe un potere d’acquisto di 67 euro).
I titoli di stato dovrebbero essere ridenominati in valuta nazionale, altrimenti il debito pubblico sarebbe insostenibile. Gli effetti sarebbero simili. Forti vendite finché i prezzi non scontano pienamente la svalutazione attesa con rilevanti perdite per gli investitori esteri, che potrebbero reagire uscendo dal nostro mercato e rendere così difficile il rifinanziamento del debito in scadenza.
Per gli stessi motivi, le obbligazioni di imprese non finanziarie emesse in base al diritto italiano dovrebbero essere convertite in valuta locale, con effetti analoghi. Le imprese rimarrebbero esposte al rischio di cambio sui debiti verso banche estere e obbligazioni emesse secondo il diritto internazionale, con ripercussioni rilevanti su redditività e investimenti.
In definitiva, la temporanea doppia circolazione (depositi temporaneamente mantenuti in euro e titoli obbligazionari emessi in base al diritto nazionale convertiti in valuta locale) potrebbe avere conseguenze molto gravi, ma forse non dirompenti sulla stabilità delle banche. Però, imporrebbe rilevanti perdite agli investitori esteri – che potrebbero abbandonare il nostro mercato dei capitali, con enormi danni per il finanziamento dell’economia e rischi di default sul debito pubblico – e una forte riduzione del potere d’acquisto dei risparmi delle famiglie, con effetti depressivi sui consumi e attività produttiva.
Conseguenze della fine dell’euro
Lo scioglimento dell’euro con il ritorno di tutti i paesi alle proprie valute nazionali pone rischi ancora maggiori (lo stesso vale per il cosiddetto euro a “due velocità”). Il problema è ridefinire la valuta di regolamento dei rapporti fra residenti in differenti paesi. Quelli con valute forti e creditori netti sull’estero (Germania in primo luogo) spingeranno per usare la moneta del paese creditore, viceversa quelli con valute deboli e debitori netti sull’estero. Si potrebbero fissare tassi di conversione che pur applicando il criterio della valuta del paese debitore prevedano una sufficiente svalutazione, ma nell’incertezza vi sarebbero deflussi di capitali dai paesi con valuta debole a quelli a valuta forte (inclusi quelli extra-UE) e rischi di corsa agli sportelli nei paesi con valuta debole per entrare in possesso di circolante da trasferire in paesi a valuta forte.
Si avrebbe una crisi sistemica anche peggiore di quella derivante dall’uscita di un singolo stato come l’Italia, poiché tutti i paesi periferici sarebbero simultaneamente sotto pressione.
( Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non impegnano in alcun modo l’istituzione di appartenenza.)
Giovanni Siciliano -- LaVoce.info
"Gli analisti di Piazzetta Cuccia (Mediobanca) arrivano alla conclusione che il saldo tra costi e benefici dell’abbandono della moneta unica nel corso del 2017 sarebbe negativo per 71 miliardi (euro). Infatti da quest’anno, diversamente da quanto avvenuto fino al 2016, la maggior parte dei titoli di Stato contiene una clausola di azione collettiva (Cac, prevista dalla normativa Ue a partire dal 2013) che impedisce di fatto la ridenominazione in valuta locale del debito pubblico emesso in euro. Le Cac consentono infatti ai creditori che possiedono più del 25% di ogni emissione di porre il veto su proposte di ristrutturazione o, appunto, ridenominazione del debito." (Il Fatto Quotidiano)