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Il Territorio libero di Trieste: il confine più aperto d'Europa

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Il Territorio libero di Trieste era una sottile striscia della costa occidentale della penisola istriana, tra il fiume Timavo e il fiume Quieto 

 

Per gli italiani Trieste era la "città irredenta" per antonomasia, per gli austriaci la finestra dell'Impero sul Mediterraneo, per gli slavi il polmone della Slovenia 

 

Su che cosa dunque fosse il TlT, gli studiosi discutono ancora. Non era più Italia, non era Jugoslavia, ma non era neanche uno stato.

 

   Sarebbe dovuto essere uno stato cuscinetto fra Italia e Jugoslavia previsto dal trattato di pace del 1947, posto sotto l'egida delle Nazioni Unite per evitare che i due stati confinanti si accapigliassero per farne un solo boccone. Invece, non andò così: la questione del TlT rimase una spina del fianco di Italia e Jugoslavia fino al 1954 - data in cui il memorandum di Londra cercò di accomodarla in via pratica - venne ufficialmente risolta solo con il trattato di Osimo nel 1975 e suscita ancora qualche tardiva passione.

   La vicenda del TlT è stata uno degli ultimi sussulti attraverso i quali si è definito nel secolo scorso il confine orientale italiano. Nel comporre quelle spinte e controspinte si sono accavallati vari tipi di contrasti: le rivalità di potenza prima fra Italia e Austria-Ungheria e poi fra Italia e Jugoslavia, gli antagonismi nazionali fra italiani, tedeschi, sloveni e croati corposamente intrecciati ad interessi di classe, le conflittualità strategiche ed ideologiche della guerra fredda.

   Prima del primo conflitto mondiale, i territori fra il fiume Isonzo e lo spartiacque alpino i tedeschi li chiamavano Litorale austriaco, gli italiani Venezia Giulia, mentre gli slavi li dividevano fra Litorale sloveno e Istria croata.

    Per gli italiani Trieste era la "città irredenta" per antonomasia, per gli austriaci la finestra dell'Impero sul Mediterraneo, per gli slavi il polmone della Slovenia e, magari, di un nuovo stato degli slavi del sud. Attorno a tali differenti letture della realtà fiorivano studi più o meno scientifici, si narravano miti assai suggestivi, si componevano odi e spartiti musicali, si infiammavano i cuori e si mobilitavano le masse. Insomma, un bel concentrato, nell'ambito di una minuscola regione adriatica, delle linee di faglia che stavano per scatenare i grandi sismi dell'Europa centrale.

   Il primo scossone favorì l'Italia, che dopo la Grande guerra annesse l'intera regione. Del loro trionfo, gli italiani non fecero un uso assai saggio. Il regime fascista si diede con grande impegno ad opprimere quella che era diventata la minoranza slovena e croata in Italia, con il chiaro intento di nazionalizzare integralmente il territorio dello stato.

   Non era un proposito molto diverso da quello degli altri stati per la nazione europei, ma la sua gestione da parte di un regime di per sé oppressivo contribuì ad alimentare un robusto irredentismo sloveno e croato e ad inculcare nelle menti delle sue vittime una funesta equivalenza fra italiani e fascisti.

   Per giunta, lo stato di Mussolini fallì clamorosamente il suo obiettivo nazionalizzatore, vuoi per la resistenza all'assimilazione delle popolazioni rurali, vuoi per i limiti stessi di un sistema meno totalitario di quanto il Duce avrebbe desiderato.

    Anche il secondo scossone sembrò inizialmente beneficare l'Italia, che nel 1941, dopo aver fatto a pezzi la Jugoslavia assieme a tedeschi, ungheresi e bulgari, annesse la Slovenia meridionale, la Dalmazia e, di fatto, puranco il Montenegro. Contro i "ribelli" alla nuova situazione le truppe italiane mostrarono una spietatezza non inferiore a quella germanica.  Due anni dopo però, nel settembre del 1943, l'Italia andò a gambe all'aria, trascinando nel crollo non solo il recentissimo confine imperiale, ma anche quello uscito dal primo conflitto mondiale, che i patrioti italiani avevano interpretato come la quarta guerra di indipendenza.

   Seguì il caos. La regione venne posta sotto il diretto controllo germanico e si trovò risucchiata nelle terribili logiche di violenza del fronte orientale e della guerra di liberazione / guerra civile / rivoluzione jugoslava: ed ecco le stragi di "nemici del popolo" che gli italiani chiamarono foibe (dal nome delle cavità carsiche in cui venivano spesso gettati i cadaveri), la politica del terrore tedesca, gli attentati, il campo della morte della risiera di san Sabba con il suo forno crematorio.

   Gli italiani passarono di colpo dal dominio all'impotenza. Il potere lo avevano i nazisti, il contropotere i partigiani comunisti jugoslavi. Alcuni italiani si schierarono con i primi, altri con i secondi.  Per gli italiani fu l'inizio della "catastrofe dell'italianità adriatica", mentre sloveni e croati vivevano un'epopea risorgimentale i cui sanguinosi contorni fratricidi sarebbero stati a lungo obliati.

   Mentre le frontiere di stato fluttuavano, quelle all'interno della società si irrobustivano.  I principali gruppi nazionali si percepivano reciprocamente come una minaccia mortale. Anche gli internazionalisti, cioè i comunisti, si trovarono a dover scegliere fra Italia e Jugoslavia: per quelli sloveni e croati, ovviamente, il problema non si poneva, mentre quelli italiani finirono anche loro per schierarsi con la Jugoslavia che stava costruendo il socialismo piuttosto che con l'Italia destinata a rimanere capitalista.

   E l'Italia dalla guerra uscì sconfitta e duramente punita: oltre a cancellarne per sempre le ambizioni di potenza - il che non fu affatto un male - il trattato di pace assegnò alla Jugoslavia quasi tutta la Venezia Giulia, lasciando in Italia solo la parte meridionale della provincia di Gorizia. Città simbolo dell'italianità adriatica, come Zara, Fiume e Pola, furono perdute.

   Dopo la radicalizzazione estrema dei conflitti nazionali avvenuta negli anni precedenti, accadde agli italiani residenti nei territori passati alla sovranità jugoslava quel che già era avvenuto ai greci in Anatolia, ai tedeschi in Polonia e Cecoslovacchia, ai polacchi in Ucraina, solo per citare alcuni dei più noti fra gli spostamenti forzati di popolazione novecenteschi.  Le modalità furono diverse, secondo il paradigma degli esodi piuttosto che delle deportazioni o delle espulsioni, ma il risultato fu il medesimo: la scomparsa quasi completa di un gruppo nazionale autoctono.

   Sospeso rimaneva invece il futuro di Trieste, la cui sorte non dipese dalle dispute locali ma dagli interessi delle grandi potenze. All'Unione Sovietica, poco interessata al Mediterraneo, premeva semplicemente mostrare il proprio sostegno all'amico regime jugoslavo di Tito.

   Stati Uniti e Gran Bretagna erano invece fermamente intenzionati ad evitare che l'unico porto dell'Austria finisse in mano jugoslava, cioè sovietica.  La prima conseguenza fu l'internazionalizzazione, ma si trattava solo di un espediente temporaneo. Un anno dopo, inglesi e americani si convinsero che il TlT non sarebbe stato vitale e che, in tempi di guerra fredda, sulla garanzia delle Nazioni Unite non bisognava fare troppo affidamento.

   La soluzione alternativa era a portata di mano: il trattato di pace aveva previsto che fosse il Consiglio di sicurezza a nominare il governatore - profumatamente pagato - del nuovo staterello.

   Nel frattempo, l'area sarebbe stata amministrata dalle forze armate che già vi stazionavano fin dall'immediato dopoguerra, e cioè dagli anglo-americani nella zona A, con Trieste, e dagli jugoslavi nella zona B.

   Dunque, bastava non mettersi d'accordo sul nome del governatore ed il gioco era fatto. Dopo un po' di schermaglie, i sovietici capirono che aria tirava e lasciarono perdere, anche se formalmente la nomina sarebbe rimasta all'ordine del giorno del Consiglio di sicurezza fino al 1975.

   Su che cosa dunque fosse il TlT, gli studiosi discutono ancora. Non era più Italia (su questo solo alcuni giuristi italiani non sono d'accordo). Non era Jugoslavia. Ma non era neanche uno stato, perché mancava di tutti i requisiti della sovranità. Dunque, che cos'era? Forse nulla: res nullius, come dicono i giuristi. Però, non era affatto scomparso dalla faccia della terra: la gente ci viveva e, abbondantemente, ci litigava.

   Nella zona B vennero instaurati i "poteri popolari" e chi veniva considerato "nemico del popolo" se la passava davvero male. Non casualmente, quasi tutti gli italiani lo erano.

   All'inizio facevano eccezione i comunisti, che erano considerati "italiani buoni e onesti": ma erano pochini e rimasero sconvolti quando, nel 1948, scoppiò la controversia fra Tito e Stalin che portò all'espulsione della Jugoslavia dal Cominform. Ovviamente, si schierarono con Stalin e si ritrovarono trattati come i peggiori nemici del regime.

   Nella zona A, la funzione del Governo militare anglo-americano era quella di difendere la democrazia liberale, però senza concederla alla popolazione, perché c'erano troppi comunisti in giro.

   Così, per la prima volta si votò appena nel 1949, beninteso solo per le amministrazioni locali, ed il GMA mostrò sempre la tendenza a reagire con grande vivacità - e salve di fucileria - a qualsiasi tentativo di sfidarne l'assoluto controllo, venisse dai comunisti o dai patrioti italiani.

   A differenza delle autorità jugoslave in zona B però, oltre al bastone il GMA sapeva usare anche la carota. Trieste fu inondata dai fondi dell’Ente per la ricostruzione europea, usati per combattere la disoccupazione a prescindere dall'effettiva sostenibilità economica delle nuove imprese.

   Inoltre, i militari americani erano pieni di dollari e la zona A altrettanto piena di bar, sale da ballo, stabilimenti balneari e belle ragazze, parecchie delle quali riuscirono anche a farsi sposare. Nella zona B, invece, si faceva la fame.

   La rottura fra Stalin e Tito mutò peraltro completamente il ruolo internazionale della Jugoslavia: non più longa manus di Mosca verso il Mediterraneo, ma possibile cuscinetto strategico dell'Occidente nei Balcani.

   Agli inizi degli anni Cinquanta quindi, Washington e Londra cominciarono a premere su Italia e Jugoslavia affinché mettessero da parte le precedenti rivalità in nome dell'interesse comune.

   Non fu per niente facile ma alla fine, nell'autunno del 1954, riuscirono ad inventare una soluzione abbastanza fantasiosa. Un memorandum firmato a Londra previde infatti che l'amministrazione della zona A passasse dal GMA al governo italiano e quella della zona B dal governo militare jugoslavo al governo jugoslavo.

   In questo modo, di fatto il TlT veniva spartito fra Italia e Jugoslavia ma ufficialmente, e con una certa faccia tosta, i governi di Roma e di Belgrado potevano dichiarare alle proprie opinioni pubbliche di non aver rinunciato alle loro rivendicazioni sul resto del Territorio.  Il trucco funzionò e negli anni Sessanta quello fra Italia e Jugoslavia divenne "il confine più aperto d'Europa" fra uno stato comunista ed uno capitalista.

   Formalmente, rimaneva ancora qualche ombra e nel 1975 i due governi, entrambi preoccupati per il "dopo Tito", decisero di cancellarla con il trattato di Osimo, che sanciva ufficialmente il confine italo-jugoslavo. Delle antiche dispute le opinioni pubbliche dei due paesi si erano ormai scordate.

   Si lamentarono - ovviamente - le associazioni degli italiani che erano dovuti esodare dalla zona B ed anche a Trieste vi furono proteste, ma l'Italia stava vivendo gli anni di piombo e l'attenzione era altrove.  Non per questo scomparvero d'incanto le ferite della memoria, che anzi continuarono a suppurare sino alla fine della Jugoslavia. I nuovi scenari del dopo guerra fredda non influirono sugli assetti di confine tra l'Italia e i suoi nuovi vicini orientali, perché rimettere in discussione quelle frontiere avrebbe significato gettare l'Italia nell'inferno delle guerre jugoslave e questo, dopo qualche incertezza, lo compresero anche i nazionalisti più sfrenati.

   Le memorie divise e occultate in nome del buon vicinato e della stabilità continentale erano invece lì, pronte a rivendicare il loro spazio, come in tante altre parti dell'Europa post-'89. Per gestirle, Italia, Slovenia e Croazia seguirono in successione due vie contraddittorie: prima - negli anni Novanta - quella delle commissioni bilaterali di esperti storici, poi - dopo il 2004 - quella della creazione di giornate memoriali.

   Quest'ultima, come non era difficile prevedere, ha soddisfatto i bisogni di riconoscimento di molte delle vittime delle contese novecentesche, ma ha suscitato altrettante polemiche, che hanno finito per coinvolgere addirittura i vertici dei tre stati.

   Un tanto però, nessuno se lo poteva permettere, mentre la strategia generale dei tre governi era quella dell'integrazione europea. Le diplomazie quindi si sono date da fare per spegnere ogni focolaio d'incendio, organizzando due solenni giornate di riconciliazione, l'una a Trieste nel 2010 e l'altra a Pola (ora appartenente alla repubblica di Croazia) nel 2011.

   Comunque, nonostante la forte ripresa d'interesse, politico e storiografico, per le vicende del confine adriatico registratasi nell'ultimo quindicennio, nessuno ha più tirato in ballo il fantasma del TlT, fino ad anni recentissimi: in questi tempi di crisi economica infatti, a Trieste un gruppetto di nostalgici alquanto folcloristici ha deciso di impugnare nuovamente il vessillo del Territorio libero, convinto che vivere a Topolinia sarebbe un ottimo modo per eludere le tasse, che in Italia, com'è noto, sono assai alte per chi le paga.

Raoul Pupo -- eutopia

 

 

 

 

 

 

Letture di approfondimento:

 

 

Marina Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino 2007.Franco Cecotti, toghether with Dragan Umek, Il tempo dei confini. Atlante storico dell’Adriatico nord-orientale nel contesto europeo e mediterraneo 1748-2008, Trieste, IRSMLFVG 2011.Egidio Ivetic, Un confine nel Mediterraneo. L'Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900), Roma, Viella 2014.Raoul Pupo,The Italo-Slovenian Historico-Cultural Commission, in "Contemporary History on Trial. Europe since 1989 and the Role of the Expert Historian", edited by Harriet Jones, Kjell Őstberg, Nico Randeraad, Manchester, Manchester University Press 2007.

 

 

 

 

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