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Dove va la Turchia di Erdogan?

 

Dopo aver islamizzato la Turchia costruendo migliaia di moschee e scuole islamiche, oltreché prigioni, Erdogan ha assunto un ruolo assai attivo e ambiguo sullo scacchiere internazionale. Tuttavia la vera sfida rimane quella di dimostrare che il paese può ricominciare a crescere a tassi sostenuti.

La svolta religiosa

   Fra il 2005 e il 2015 in Turchia sono state costruite 9mila moschee, ha dichiarato con orgoglio l’ente pubblico per gli affari religiosi turco, Diyanet. Vanno ad aggiungersi alle oltre 80mila già esistenti, il doppio di quelle operanti nella Repubblica islamica dell’Iran, paese con un numero di abitanti simile, o in Egitto.

   Accanto alle moschee sono state anche create un’infinità di scuole religiose. Dal 2003, anno d’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdogan, il numero di studenti che frequentano le imam school è passato da 60mila a 1,2 milioni. In molti distretti le scuole religiose sono oggi l’unica opzione disponibile per le famiglie che non possono permettersi quelle private. Dal 2014, poi, le bambine sopra i dieci anni possono indossare durante le ore di lezione lo scialle religioso (Hijab) in tutte le scuole.

   Le controverse riforme scolastiche portate avanti nell’ultimo decennio non hanno, invece, migliorato la qualità delle scuole pubbliche turche che rimane, come attestato dall’Ocse, molto scarsa.

   Accanto alle scuole religiose e alle moschee, il governo turco ha più di recente deciso di costruire 174 nuove prigioni per accogliere oltre 100mila detenuti, dopo che sono stati rilasciati 40mila delinquenti comuni per far spazio ai migliaia di sospettati di complicità nel tentato colpo di Stato del 15 di luglio.

   In politica estera Erdogan ha da tempo abbandonato il principio “nessun problema con i vicini”, rotto la tregua col Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e chiuso a ogni tentativo di riconciliazione con gli armeni. Oggi la Turchia ha problemi politico-militari più o meno seri con l’Egitto, la Giordania, la Siria, Cipro, Israele, la Russia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti.

   Cambiando più volte casacca, quale paladino della causa palestinese, sei anni fa Erdogan ha interrotto le relazioni con Israele, per poi accettare negli scorsi mesi una formale rappacificazione con lo stato ebraico. Lo stesso Erdogan, dopo l’abbattimento di un areo russo sul confine meridionale della Turchia, è arrivato alla rottura dei rapporti diplomatici con Mosca, per poi trovare recentemente un interessato accordo commerciale e politico con Putin, nonostante in Siria sia schierato a fianco dei ribelli che combattono contro Bashar al-Assad, storico alleato russo.

   Ancora più ambigui sono i suoi rapporti con l’Unione europea: prima ha favorito l’esodo di milioni di emigrati profughi siriani verso la Grecia, poi firmato un accordo miliardario con il quale ha fermato il contrabbando di vite umane, ma ha preteso di poter fare entrare senza visto i propri concittadini nell’Unione pur non omologandosi agli standard europei in termini di lotta al terrorismo.

   Particolarmente tormentati sono gli storici rapporti di “amicizia” con gli Stati Uniti, accusati di aver fomentato il recente colpo di stato e di spalleggiare la causa dei curdi, che in Siria stanno dando un contributo fondamentale alla lotta all’Isis. Il recente ingresso delle truppe turche non solo in Siria ma anche in Iraq, fuori dalla coalizione anti-Assad guidata dal governo americano e soprattutto contro la volontà del governo iracheno, ha ulteriormente complicato la posizione internazionale della Turchia, membro strategico del Nato.

L’economia di Erdogan

   È tuttavia sul terreno economico che si gioca la partita politica più importante per Erdogan. Infatti, durante i primi dieci anni del suo governo, il prodotto interno lordo per abitante è passato da meno di 9mila dollari annui a quasi 20mila, con tassi di crescita che in alcuni anni hanno superato l’8 per cento. Questo ha accresciuto enormemente la sua popolarità interna e la sua credibilità internazionale.

   Negli ultimi anni, tuttavia, la crescita è molto rallentata e nel 2017 è prevista di poco superiore al 2 per cento, con un’inflazione che viaggia sopra l’8 per cento, un tasso di disoccupazione sopra il 10 per cento e un forte deficit sia delle partite correnti che dei conti pubblici. Il turismo è caduto a picco dopo il tentato colpo di stato e una serie di attentati terroristici, che si sono succeduti a ritmo quasi settimanale, mentre gli investimenti esteri hanno conosciuto un forte rallentamento, dopo che alcuni imprenditori sono stati arrestasti per comportamenti anti-patriottici, e le principali agenzie di rating hanno declassato a non-investment grade il debito sovrano del paese. Più in generale, come mostrano alcuni studi recenti, l’islamizzazione di un paese nel lungo periodo provoca spesso una riduzione delle libertà civili e politiche e quindi dello sviluppo economico.

Rony Hamaui -- LaVoce.info

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