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L’università condannata all’italiano

Il Consiglio di stato ribadisce il divieto di istituire interi corsi in inglese, impedendo alle università italiane di competere a livello internazionale. Così le famiglie italiane spenderanno all’estero, ma gli studenti stranieri non verranno in Italia.

Due sentenze contro l’università italiana

   Alla lettura della sentenza del Consiglio di stato del 29 gennaio 2018, che dà seguito alla sentenza della Corte costituzionale di circa un anno fa (n. 42/2017), è impossibile non associare il detto latino secondo cui “Giove rende cieco chi vuole perdere”. Con le due sentenze infatti è stato inconsapevolmente scritto l’epitaffio dell’università italiana, intesa come istituzione in grado di competere nella formazione dei giovani con le migliori accademie straniere.

   Le regole dettate dalle sentenze del Consiglio di stato e della Corte costituzionale sono sostanzialmente due. Primo, le università italiane non possono istituire interi corsi di studio in lingua straniera, salvo che non predispongano corsi omologhi anche in italiano. Secondo, le università possono tuttavia prevedere singoli insegnamenti in lingua straniera, anche se non ve ne sono di corrispondenti in lingua italiana. A questa facoltà però si può fare ricorso – ammonisce la Consulta – secondo “ragionevolezza proporzionalità e adeguatezza, così da garantire una complessiva offerta formativa rispettosa del primato della lingua italiana”.

   Con la prima regola, in sostanza, si impedisce alle università italiane di competere nel mercato dell’insegnamento in inglese, vale a dire di competere con il resto del mondo. Molti studenti italiani non sceglieranno le università italiane perché l’inglese è ormai richiesto come obbligatorio per tutte le attività e professioni di livello medio/alto. Gli studenti stranieri non verranno Italia, perché oggi la lingua comune dell’apprendimento è l’inglese. L’unica possibilità di istituire un corso di studi esclusivamente in inglese è quella di crearne uno omologo in italiano. Ma è evidente che l’incremento dei costi (ulteriori docenti, spazi e spese amministrative) in un quadro di finanziamento già ridotto all’osso, rende difficile questa opzione.

   Si poteva sperare che le corti salvassero almeno i corsi di studio che hanno senso solo in inglese, ad esempio, le relazioni o il diritto o l’economia internazionali. È lecito insegnare solo in inglese ai nostri futuri diplomatici? La Corte costituzionale è inflessibile: “il divieto vale anche nei settori nei quali l’oggetto stesso dell’insegnamento lo richieda”. Anche chi non ha familiarità con l’inglese deve poter diventare un diplomatico.

   Dalla regola seguono due corollari, uno finanziario e uno sociale: a) le famiglie italiane spenderanno all’estero e le famiglie straniere non spenderanno in Italia; b) i figli di famiglie benestanti otterranno comunque una educazione in inglese all’estero, i figli di famiglie non benestanti, seppure capaci e meritevoli, troveranno nell’università italiana un ascensore sociale fermo al piano terra.

   La seconda regola consente alle università di prevedere singoli insegnamenti in inglese. Sennonché, come sanno tutti coloro che vivono nell’università, se non vengono organizzati in un corso che porta a un titolo spendibile sul mercato, come ad esempio una laurea magistrale, gli insegnamenti sono scarsamente appetibili. Perché uno studente dovrebbe fare lo sforzo di frequentare un corso in inglese, con relativi esami in lingua, se non gli porta nessun titolo che certifichi le sue competenze nel mondo del lavoro? Di fatto, questi singoli insegnamenti saranno scelti – come avviene oggi – prevalentemente dagli studenti stranieri, in mobilità internazionale.

Un ibrido senza mercato

   Naturalmente le due regole prese assieme rendono possibili corsi “ibridi”, ossia parte in italiano e parte in inglese. Qui abbiamo anzitutto un problema interpretativo. Il divieto di interi corsi esclusivamente in lingua straniera lascerebbe aperta – in termini letterali – la possibilità di disegnare un corso con un solo insegnamento in italiano e il resto in inglese. Tuttavia, una lettura teleologica delle sentenze si oppone all’opzione “furbetta”: è chiaro infatti che le Corti vogliono salvaguardare il ruolo centrale della lingua italiana nell’insegnamento universitario. Peraltro, il mercato di questi corsi sarebbe puramente nazionale e assai ristretto. Infatti, non potrebbero comunque essere rivolti agli studenti stranieri, dato che la presenza di insegnamenti in italiano presenta ostacoli per loro insormontabili. E non potrebbero essere rivolti nemmeno agli studenti italiani che non sanno l’inglese, perché, in questo caso, gli ostacoli sarebbero rappresentati dagli insegnamenti in inglese.

   In sostanza, in termini di mercato, potremmo dire che i giudici, con il divieto di corsi in inglese costringono l’università italiana a limitare la produzione a un prodotto non competitivo – corsi in italiano – ovvero a organizzare una produzione locale (in italiano) e una per l’esportazione (in inglese). Consentono all’università di avere insegnamenti in lingua, ma questi non possono essere assemblati in un prodotto competitivo – interi corsi in inglese – cosicché il loro valore è molto ridotto. Consentono all’università di produrre corsi ibridi, ma il mercato per questi non è nemmeno nazionale.

 

Pietro Manzini -- lavoce.info

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