Il 'Male' nella tradizione islamica
"Toleranz wird zum Verbrechen, wenn sie dem Bösen gilt" (La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male), scriveva nel 1924 Thomas Mann nel suo Der Zauberberg (La montagna incantata).
Secondo Voltaire ‒ il Convitato di pietra, dopo i misfatti di "Charlie Hebdo", nel parlare della presunta illimitata libertà di espressione ‒ Male e Bene costituiscono un binomio problematico che egli risolveva individuando nella morte il Male, tanto da fargli chiedere come un dio, che si pretende paterno verso le Sue creature, possa consegnarle all’annichilimento e consentire che esse, in vita, siano sottoposte a sofferenze morali e materiali.
Parlare di Dio era per il filosofo un artifizio retorico, vista la sua forte critica a tutte le religioni che degenerassero nel fanatismo, ben espressa nel suo Dizionario filosofico del 1764 quando sentenziava: "Se crediamo a delle assurdità, commetteremo delle atrocità".
Agli occhi del prevalente sentimento laico occidentale, non necessariamente ateo o agnostico, che sull’Illuminismo si è fortemente plasmato, la morte è dunque il massimo dei mali. Tanto la morte fisica quanto quella dei diritti 'inalienabili' dell’Uomo: dal diritto alla vita a quelli di espressione e di organizzazione politica.
Sotto questo profilo, per l’Occidente non è possibile concepire la strage terroristica condotta contro "Charlie Hebdo" altro che come il Male assoluto, senza attenuanti. In altri contesti culturali, tuttavia, il Male viene altrimenti concepito.
In quello dell’islàm che qui c’interessa ‒ ultima di quelle che Max Weber definiva “religioni universali” ‒ Bene e Male hanno una medesima matrice, anche se dicotomica. Per esso il Bene non è altro che la Volontà divina e il secondo la sua trasgressione. Non ha senso di conseguenza che una qualche creatura divina possa essere ontologicamente definita 'Maligno' per antonomasia.
Il diavolo (Shaytàn, Iblìs) non è altro che un 'povero diavolo' che non può operare senza il consenso di Allah, perfino nell’opera seduttrice accordatagli di sussurrare “nel cuore degli uomini” (Cor., CXIV:5) al fine d’indurli a disubbidire ai Suoi comandi, come confermato nel passaggio coranico in cui il diavolo ricorda al suo creatore: "… Tu mi hai fatto errare" (VII:16).
Solo col più totale assoggettamento ai comandi divini (islàm) il musulmano può sperare "ka la morte secunda non ’l farà male". Facile capire come la blasfemia e l’offesa a Dio o a Maometto, Suo ultimo profeta, esplicite dalle vignette di "Charlie Hebdo", non possano essere perdonate dai musulmani, che le giudicano come il Male assoluto, anche se da ciò non deriva alcun obbligo giuridico di sanzionare violentemente i peccatori, tanto più perché espresse fuori dal mondo islamico.
Nessuno spazio può esservi per i musulmani per una condivisione della frase, falsamente attribuita a Voltaire, "Non sono d’accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee", quando queste ultime vituperino la base principe islamica della shahàda, che proclama l’unità e unicità di Allah e la missione profetica di Maometto.
È ampiamente diffusa nell’opinione pubblica occidentale la convinzione che violenza e intol-leranza siano alla base del pensiero islamico. Esso sarebbe ai suoi occhi infettato dal concetto del gihàd, inossidabilmente visto come 'guerra santa' contro chi non è musulmano, malgrado questa accezione sia giuridicamente minoritaria per la stessa Legge islamica (sharì‘a) rispetto a quella di 'devoto sforzo' o 'pio impegno' che il credente deve realizzare per emendarsi da vizi e indegnità.
Tale convinzione dimentica come tutte le 'religioni universali' weberiane si siano affermate grazie al determinante impegno bellico e alla violenza. Da Giosuè o Davide ai cristiani che afflissero i pagani nell’Alto Medioevo e che lanciarono le varie Crociate all’inizio del Basso Medioevo.
L’islàm non fa eccezione. Fuggiti nel 622 verso Yathrib (poi Medina) per la crescente ostilità dei politeisti di Mecca, i musulmani non persero tempo ad attaccare i loro passati concittadini. Ai loro occhi, giustificati in questo caso dal Corano, si trattava di un vindice 'impegno sacro', un gihàd lisabìl Allàh, “lungo la strada di Allàh”, del tutto paragonabile al letale interdetto voluto dal Dio ebraico per affliggere gli Amorrei del Negev e favorire il Suo Popolo Eletto, come narrato nel Libro dei Numeri (21:3).
Per ogni altro impiego della violenza bellica, il Corano parla di qitàl, ghazwa, harb o darb e se per la Legge islamica il termine gihàd non avrebbe granché a che fare con le operazioni militari che, dal 634, due anni dopo la morte di Maometto, portarono alla conquista di Mesopotamia, Siria-Palestina ed Egitto, i musulmani però non hanno mai rinunciato a impiegare tale termine, visto il fruttuoso impatto psicologico sui guerrieri, cui si prometteva salvezza eterna in caso di morte in battaglie spacciate come necessario strumento per la diffusione della verità coranica e per lucrare la salvezza eterna.
La violenza, che secondo Voltaire (Le Fanatisme ou Mahomet) o Montesquieu (De l’Esprit des lois) sarebbe il filo conduttore del credo islamico, non trova agevoli riferimenti nel Corano e neppure nella storia delle conquiste (futuhàt), se non altro perché le popolazioni assoggettate po¬liticamente non furono costrette ad abbracciare la fede dei vincitori, come sottolineato da David Cook nel suo Understanding Jihad.
Oggi il termine gihàd viene abbondantemente ripreso, in modo pretestuoso, da un vasto numero di organizzazioni terroristiche di stampo fondamentalista (al-Qà’ida, ISIS, solo per fare un paio di esempi) e da qualche 'lupo solitario' (lone wolf), il cui fanatismo è alimentato dall’emarginazione sociale, economica e culturale che caratterizza buona parte dei suburbi in cui per lo più vivono le comunità islamiche in Europa.
Come qualificare l’islàm di costoro? E che senso ha parlare di islàm 'moderato'?
Se si considera che il primo è il prodotto numericamente marginale (anche se devastante) dell’approssimata preparazione teorica di imàm autodidatti, quasi mai formatisi nei lunghi anni di studio delle cosiddette 'scienze religiose', richiesti dagli autorevoli centri di formazione superiore, come quello di al-Azhar del Cairo, apparirà illogico parlare di islàm 'moderato', quasi che esso rappresenti un’eccezione.
L’islàm, con le sue luci e le sue ombre, conta circa 1 miliardo e 300 milioni di fedeli, mentre è il mondo dell’estremismo gihadista a costituire un’esigua minoranza, ancorché non facilmente quantificabile.
Germinato dal sunnismo neo-hanbalita e wahhabita, accanitamente ostile al mondo islamico ufficiale, accusato di supina acquiescenza nei confronti dell’Occidente 'ebraico-cristiano e crociata', il gihadismo non può essere definito una variante 'ortodossa' del sunnismo, visto che nelle sue azio-ni criminali non tiene nel minimo conto il portato di 1400 anni ininterrotti di tradizione istituzionale e giuridica, cui hanno contribuito i suoi stessi mal compresi maestri.
Ne è una riprova la loro condanna di “eresia” (kufr) comminata ai musulmani sciiti, di cui “è lecito versare il sangue”, indifferente al fatto che il sunnismo ufficiale non ha mai negato loro da oltre un millennio la qualifica di credenti, per quanto 'in errore', ammettendoli infatti a partecipare a pieno titolo ai sacri riti del Pellegrinaggio a Mecca e dintorni, dai quali rimangono invece rigidamente esclusi i credenti delle fedi originatesi dall’islàm ma da esso decisamente allontanatesi.
Mai come oggi appare urgente una conoscenza reciproca e non superficiale della cultura islamica che, nel mutuo rispetto e col concorso di tutti, sia in grado di arrestare un processo d’imbarbarimento che offende lo stesso mondo islamico. Neutralizzando gli autori di crimini abominevoli e i loro mandanti, alcuni dei quali resi innominabili dal loro allineamento internazionale, quanto mai accorto, all’Occidente.
Claudio Lo Jacono -- Eutopia