Non c’è più religione

Lento declino dei praticanti

    Qual è lo stato di salute della religione in Italia? Come è cambiato negli ultimi decenni? Gli scienziati sociali sono concordi nel ritenere che l’indicatore più adatto per rispondere a tali domande sia la frequenza con la quale la popolazione di un paese si reca in un luogo di culto. Alcuni studiosi, analizzando i dati, sono arrivati alla conclusione che in Italia la quota di praticanti regolari (persone che vanno a messa almeno una volta alla settimana) è diminuita dal 1956 al 1981, mentre è rimasta quasi costante, o ha conosciuto deboli inversioni di tendenza, nel decennio successivo. Ma cosa è avvenuto dopo? L’ultimo ventennio è stato un periodo di grandi cambiamenti, alcuni dei quali, come l’invecchiamento della popolazione e l’immigrazione, supponiamo abbiano fatto crescere la quota dei praticanti, mentre di altri (la lunga crisi economica) non sappiamo se abbiano avuto effetti in questo campo. Secondo i dati dell’archivio Istat (senza dubbio i più affidabili fra quelli esistenti), dal 1995 al 2015, la quota di chi va a messa almeno una volta alla settimana è passata dal 39,7 al 29 per cento, perdendo circa mezzo punto all’anno. Questo si è verificato in tutte le regioni del nostro paese, cosicché le distanze territoriali sono rimaste immutate. Oggi, come venti anni fa, i praticanti sono più numerosi nel Mezzogiorno e nelle isole (figura 1).

Grafico 1

    Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un declino progressivo, lento, dolce, senza salti bruschi. Tuttavia, se approfondiamo l’analisi, ci accorgiamo che in alcuni casi vi sono state delle forti cadute. La quota di chi va regolarmente in chiesa varia a seconda dell’età. La relazione è stata rilevata molte volte, ma i dati Istat ci permettono di osservarla meglio. Nel 1995, la percentuale dei praticanti raggiungeva il picco fra i ragazzi dai 6 agli 11 anni. Diminuiva fortemente nelle classi di età successive, fino a raggiungere il livello più basso fra i 30 e i 39 anni. Poi riprendeva a salire fino a 80 anni. Scendeva ancora dopo quell’età. Questo andamento era probabilmente effetto sia della generazione di appartenenza che dell’età, cioè della fase della vita. Così, ad esempio, se coloro che avevano fra 60 e 80 anni andavano in un luogo di culto più spesso dei più giovani era perché si erano formati in un periodo storico nel quale la religione aveva maggiore importanza. Ma probabilmente era anche effetto dell’età perché, invecchiando, si sentivano più deboli e fragili e cercavano conforto nella religione. Se gli ottantenni andavano a messa meno dei settantenni era anche perché uscivano meno spesso di casa. Era inoltre riconducibile all’età e non alla generazione di appartenenza il fatto che i preadolescenti andassero così frequentemente in un luogo di culto. Ci andavano, verosimilmente, anche quando i loro genitori avevano smesso di essere praticanti o erano diventati agnostici, perché accompagnati dai nonni.

Il comportamento dei ventenni

    Nell’ultimo ventennio, il declino della partecipazione religiosa è avvenuto non solo in tutte le zone del paese, ma anche in tutte le classi di età. Ma è stato minore fra gli anziani o nelle età di mezzo e maggiore fra i giovani. È stato forte per la classe fra i 12 e i 19 anni, fortissimo in quella successiva, dai 20 ai 29. Fra i ventenni, la quota di chi va in un luogo di culto almeno una volta alla settimana è scesa, dal 1995 al 2015, dal 26,8 al 14,6 per cento. Un vero e proprio crollo, il cui significato appare ancora più evidente se analizzato per zona. Nelle classi più anziane, il declino della pratica religiosa è stato minore nelle regioni meridionali e insulari che in quelle centro settentrionali. Invece, fra i ventenni, la flessione dei praticanti è stata notevole ovunque, ma nel Sud è stata più ampia che nel Nord. È anzi questa l’unica classe di età nella quale le tradizionali differenze territoriali sono diminuite (figure 2 e 3).

Grafico 2Grafico 3

    Dunque, né l’invecchiamento della popolazione, né l’arrivo di milioni di immigrati né la lunga crisi economica hanno arrestato il processo di secolarizzazione. E neppure il carisma di due papi eccezionali – Giovanni Paolo II e Francesco I – è bastato a riportare gli italiani nelle chiese e nelle parrocchie. La partecipazione religiosa ha raggiunto oggi il livello più basso nella storia del nostro paese. La fortissima flessione che ha avuto luogo fra i ventenni fa pensare che il processo continuerà a lungo e avrà effetti rilevanti sulla vita politica e sociale. Non direttamente sull’esito delle elezioni, perché, da quando è scomparsa la Democrazia cristiana, la pratica religiosa ha smesso di essere un buon predittore delle scelte di voto. Ma certamente sulla vita intima, domestica, sul modo in cui si formano e si rompono le famiglie, le coppie etero e omosessuali, sui comportamenti sessuali e riproduttivi, sulle decisioni riguardanti la fine della vita.

Marzio Barbagli -- lavoce.info

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