L’uscita dall’euro raccontata da una tragedia in un prologo, tre atti e un epilogo. Per ora è fantapolitica, presto però potrebbe essere realtà. Ma se non esiste un modo ordinato per uscire dalla moneta unica, cerchiamo di farla funzionare meglio.
Prologo
Dopo infinite mediazioni, il parlamento italiano approva, per entrambi i suoi rami, una nuova legge elettorale proporzionale, blandamente corretta con una soglia di sbarramento relativamente bassa. La data delle elezioni è fissata per domenica 11 marzo 2018, fine naturale della XVII legislatura. All’avvicinarsi delle elezioni, i partiti antieuropeisti appaiono sempre più in testa nei sondaggi. In mercati già nervosi per la fine del programma di acquisto di titoli pubblici da parte della Banca centrale europea, lo spread tra Bund e Btp sale a oltre 350 punti base, mentre la borsa italiana continua a scivolare. In particolare, i titoli bancari sono sotto stress. Gli investitori esteri sono i primi a uscire dal rischio Italia: rischio di ingovernabilità e rischio di vittoria dei partiti anti-euro.
Atto I
Alle elezioni, nessun partito ottiene la maggioranza e formare un nuovo governo risulta estremamente difficile. Ma alla fine una eterogenea coalizione si coagula per un esecutivo di scopo, che tra altro si propone di indire un referendum consultivo sull’appartenenza all’Unione monetaria e all’euro.
Tutti, salvo i leader al governo, hanno chiaro in mente che l’eventuale uscita dall’euro, implicando una ridenominazione del debito italiano nella nuova valuta (che si vuole svalutata rispetto alla moneta unica) equivale a un default dello stato italiano.
Così lo spread tra i Btp decennali e i Bund schizza a 600, mentre i tassi a breve superano il 10 per cento. A questi livelli sia il deficit che il debito pubblico sono destinati a salire ben oltre le previsioni governative e gli impegni presi con Bruxelles. Anche le banche italiane subiscono pesanti perdite, giacché il valore degli oltre 160 miliardi di titoli pubblici italiani presenti nei loro bilanci subisce un tracollo.
Molti italiani, spaventati, scappano dai titoli di stato e dai depositi bancari. Tanti accumulano banconote (cioè euro), che tengono nelle cassette di sicurezza o sotto i materassi (i furti nelle case si moltiplicano). La Bce interviene fornendo liquidità straordinaria alle banche italiane.
Atto II
Il referendum è fissato per la metà di giugno 2018. Le agenzie di rating tagliano il loro giudizio sui titoli di stato e sulle banche. In un clima di forte caduta dei corsi, la Bce è costretta a non accettare più titoli del governo italiano quale collaterale per la liquidità che fornisce al sistema. Alcune aste di titoli di stato vanno deserte. I tassi d’interesse, incorporando un premio per il rischio crescente, salgono a livelli mai visti dalla fine degli anni Settanta, e spingono sempre di più i debitori a non pagare, moltiplicando i crediti deteriorati.
Come avvenuto nel passato in numerose crisi valutarie in America Latina ma anche a Cipro, le banche vengono chiuse e ai bancomat – dove si sono formate lunghe code – il contante distribuito viene razionato a mille euro al mese per persona. Per arginare la fuga di capitali la Guardia di finanza e l’esercito vengono mobilitati alle frontiere. Molte aziende sono costrette a chiudere temporaneamente per l’impossibilità di accedere al credito e per la caduta verticale della domanda interna di beni e servizi. I fallimenti e i licenziamenti hanno un’impennata. Ciononostante, l’inflazione comincia a salire perché la caduta della produzione è anche maggiore di quella della domanda e perché si stanno consolidando aspettative di svalutazione.
Atto III
La crisi italiana ha ampie ripercussioni anche all’estero. Il contagio è globale. Molte banche e aziende straniere, che hanno cospicui interessi in Italia, sono prese d’assalto dalla speculazione. La Commissione europea, la Bce, il Fondo monetario internazionale, ma anche i governi degli altri paesi del G7 e, in prima fila, il presidente Trump studiano un piano per fronteggiare quello che potrebbe diventare il più grosso default della storia. Oltre allo stato italiano, anche le principali banche del paese sono di fatto insolventi, date le forti perdite accumulate sul loro attivo di bilancio (titoli e prestiti). Le aspettative sono per una svalutazione di almeno il 40 per cento della nuova moneta, “creatura destinata a nascere sotto maligna stella”, dichiara in parlamento il deputato di colore Otello.
Epilogo
Al referendum, la maggioranza degli italiani vota a favore dell’euro e viene messo in piedi un enorme piano internazionale di salvataggio dell’Italia e delle sue istituzioni finanziarie, ma ci vorranno anni per sanare i danni provocati dall’aver messo in discussione la moneta unica europea. A tutti torna in mente il monito di Mario Draghi che l’euro è una costruzione irreversibile, dalla quale non si può tornare indietro.
Morale: se non esiste alcun modo ordinato per uscire dall’euro, cerchiamo di farlo funzionare meglio.
Ein Name lässt das Gewerbe der Migrantenrettung vor der libyschen Küste erzittern: Carmelo Zuccaro. Der neue Staatsanwalt von Catania ist bekannt für tüchtige, unerschrockene Arbeit als oberster Inspekteur der notorischen Verflechtungen zwischen Mafia und Politik, unter denen Catania und das ganze östliche Sizilien leiden. Doch die Bombe, die Zuccaro diesmal gezündet hat, trifft eine andere Problematik, nämlich die Beziehungen zwischen Migrantenrettern und libyschen Schlepperorganisationen.
Ausgehend von einem Verdacht, den die europäische Organisation Frontex wiederholt geäussert hat, dass manche private Rettungsinitiativen den Schleppern das Handwerk erleichtern, hat Zuccaro den Sachverhalt untersuchen lassen und kam zu folgendem Ergebnis:
“Wir haben Beweise, dass zwischen einigen NGOs (nichtstaatlichen Organisationen) und Menschenschleppern direkte Kontakte existieren. Wir wissen von Telefonanrufen aus Libyen zu gewissen Organisationen, Scheinwerfer, die den Kurs zu den Schiffen dieser Organisationen beleuchten, und Schiffe, die plötzlich ihren Transponder ausschalten,” damit sie nicht geortet werden können.
Die Staatswaltschaft von Catania untersucht alle NGOs, die vor der afrikanischen Küste aktiv sind. “Es gibt darunten gute und schlechte”, sagt Zuccaro. Zu den guten zählt er Médécins sans frontières (Ärzte ohne Grenzen) und Save the Children (Rettet die Kinder). Zu den Verdächtigen zählt er fünf von neun im Meer aktiven Organisationen, darunter die maltesische MOAS und deutsche NGOs.
Doch auch bei den “Guten” ist Zuccaro kritisch. “Bei den Verdächtigen müssen wir herausfinden, was sie treiben. Bei den Guten müssen wir uns fragen, ob es richtig und normal ist, dass es die europäischen Regierungen ihnen überlassen, zu entscheiden, wie und wo man im Mittelmeer eingreifen muss.” Zuccaro ergänzt, dass das Thema angesichts der 250.000 von ihm für dieses Jahr erwarteten Bootsmigranten dringend ist und weder der Zeitbedarf der Justiz noch ihr Wirkungsvermögen ausreichen. Das Thema sei ein politisches und gehe die europäischen Regierungen, nicht nur die italienische, an.
Naturgemäss hat diese Meldung in der italienischen Presse ein lebhaftes Kommentar-Echo ausgelöst. Zu den vorwiegend negativen Stimmen zählt der Vorschlag, die Schiffe der verdächtigen NGOs beschlagnahmen zu lassen. Weniger radikal wird mehrfach gefordert, den Schiffen die Anlandung ihrer Menschenfracht in italienischen Häfen zu verbieten. Wohin die Menschen dann sollen, wird nicht diskutiert.
In jedem Fall ist die Bundesregierung gefordert, die Rolle deutscher NGOs zu untersuchen und eng mit der Staatsanwaltschaft von Catania zusammen zu arbeiten.
Benedikt Brenner
Update
Lorenzo Pezzani schrieb für das Forensic Oceanography department at Goldsmiths, University of London einen Bericht, in dem es heisst:
Today the SAR ( Search and Rescue) activities courageously undertaken by NGOs are under attack. Despite their crucial life-saving role, SAR NGOs have in recent months become the object of a de-legitimisation and criminalisation campaign that has not only involved Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, high-level politicians, and the media, but has also led to the opening of several exploratory inquiries by prosecutors in Italy. While some of the most heinous aspects of these attacks have proven baseless or have already been effectively refuted.
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San Pedro Sula, the second largest town in Honduras, is a stopover on the tourist route to the coral reefed Bay Islands. But do not leave your hotel after sunset because S. Pedro affords the title of being the most crime ridden city in the Americas. All of Honduras is besieged by criminal gangs challenging the authority of the government. Neighboring El Salvador is home to the infamous international youth gang Mara Salvatrucha (MS-13). In Guatemala City, the bourgeoisie has fled behind walls of gated communities. All three Central American countries create a constant stream of crime refugees crossing through Mexico in the hope of making it to safety and a new life without being harrassed in the Estados Unidos. For many years, most illegal immigrants from the South were Central Americans, not Mexicans. The International Crisis Group has studied the role of the crime gangs and argues for new approaches to dealing with them.
Photo: Wikimedia Commons
Born in the aftermath of civil war and boosted by mass deportations from the U.S., Central American gangs are responsible for brutal acts of violence, chronic abuse of women, and more recently, the forced displacement of children and families. Estimated to number 54,000 in the three Northern Triangle countries – El Salvador, Guatemala and Honduras – the gangs’ archetypal tattooed young men stand out among the region’s greatest sources of public anxiety. Although they are not the only groups dedicated to violent crime, the maras have helped drive Central American murder rates to highs unmatched in the world: when the gangs called a truce in El Salvador, homicides halved overnight. But it is extortion that forms the maras’ criminal lifeblood and their most widespread racket. By plaguing local businesses for protection payments, they reaffirm control over poor urban enclaves to fund misery wages for members. Reducing the impact of these schemes, replacing them with formal employment and restoring free movement across the Northern Triangle’s urban zones would greatly reduce the harm of gang activity.
Charting this route, however, requires a sharp switch in current policies. Ever since mara-related insecurity became visible in the early 2000s, the region’s governments have responded through punitive measures that reproduce the popular stigmas and prejudices of internal armed conflict. In programs such as Iron Fist in El Salvador, the Sweep-Up Plan in Guatemala or Zero Tolerance in Honduras, mass incarceration, harsher prison conditions and recourse to extrajudicial executions provided varieties of punishment. The cumulative effects, however, have fallen far short of expectations. Assorted crackdowns have not taken account of the deep social roots of the gangs, which provide identity, purpose and status for youths who are unaccommodated in their home societies and “born dead”. The responses have also failed to recognise the counterproductive effects of security measures that have given maras prisons in which to organise and confirmation of their identity as social outcasts.
The succession of unsuccessful punitive measures is now coming under closer scrutiny across the Northern Triangle. All three countries are experimenting with new forms of regional collaboration in law enforcement. Guatemala has introduced vanguard measures to combat extortion rackets, many of them run from within jails, and has proposed a range of alternatives to prison terms. Although the collapse of the truce with the maras in 2014 spurred unprecedented violence in El Salvador, murder rates appear to have fallen again, while parts of the maras have proposed fresh talks with an eye to their eventual dissolution – an offer shunned by the government. Mass deportation from the U.S. back to these countries risks a repeated upsurge in gang crime. However, U.S. concern with reducing the migrant flow from Central America has generated significant new funds for development in the region via the Plan of the Alliance for Prosperity.
At the core of a new approach should stand an acknowledgement of the social and economic roots of gang culture, ineradicable in the short term, alongside a concerted state effort to minimise the violence of illicit gang activity. Focused and sophisticated criminal investigations should target the gangs responsible for the most egregious crimes, above all murder, rape and forced displacement. Extortion schemes that depend on coercive control over communities and businesses, and which have caused the murder of hundreds of transport workers and the exodus of thousands in the past decade, could be progressively transformed through a case-by-case approach. Ad hoc negotiations and transactions with gangs responsible for extortion are not uncommon in the Northern Triangle, and have generated insights into how the maras may be edged toward formal economic activity. Targeted and substantial economic investment in impoverished communities with significant gang presence could reduce the incentives for blackmail.
Despite the mistrust bequeathed by the truce as well as El Salvador’s and Honduras’ classification of maras as terrorist groups, new forms of communication with gangs could be established on the basis of confidence-building signals from both sides, potentially encouraged by religious leaders. Government and donor support for poor communities and for improved prison conditions would ideally be answered by a significant reduction in violence from the maras. A momentous step by the gangs, above all in El Salvador, would be to guarantee free movement of all citizens through gang-controlled territories, as well as a restoration of the veto on violence and recruitment in schools.
Rounding up all gang members, or inviting gangs to an open-ended negotiation, represent a pair of extremes that have both proven fruitless in the Northern Triangle. Gangs are both embedded in society and predatory upon it, and both victims and perpetrators. Policies toward them need to recognise their social resilience and find ways to reduce the harm they undeniably cause without branding them enemies of the people
Nach dem -- angesichts der massiven Manipulationen -- schmählich schlechten Wahlergebnis stürzt sich Präsident Erdogan in die nächste Attacke auf die Reste der westlichen Zivilisation in der Türkei. Mit der Einführung der Todesstrafe würde er ein Versprechen an seinen Koalitionspartner einlösen. Der Chef der Rechtsaussenpartei MHP Devlet Bahceli hatte als Preis für sein Ja zur Präsidialverfassung die Todesstrafe für den inhaftierten Kurdenführer Abdullah Öcalan gefordert. Dass dieser immer noch existiert und aus dem Gefängnis heraus die Terroristen der kurdischen PKK leitet und in der türkischen Politik indirekt mitmischt, ist den Ultra-Nationalisten verhasst.
Doch es ist nicht nur Koalitionstreue, die Erdogan antreibt. Auch er ist Nationalist. Auch er würde Öcalan gerne in die Geschichtsbücher verbannt sehen, so wie die getöteten Gewalttäter Saddam Hussein und Muammar Ghaddafi, nach denen heute kein Hahn mehr kräht. Doch für ihn hat die Todesstrafe primär eine religiöse Bedeutung. Sie stellt die Grenzlinie dar, an der sich der christlich dominierte Westen vom salafistisch inspirierten Osten und Süden scheidet. Das westliche Katzenkonzert, das die Wieder-Einführung der Todesstrafe in der Türkei begleiten wird, kann Erdogan nur mit tiefer Genugtuung erfüllen. Er hat ja im Wahlkampf versprochen, Europa zu bestrafen für seine Missachtung der Türkei und die angebliche Misshandlung der Türken.
Mit einem Referendum zur Todesstrafe könnte Erdogan testen, wie weit die Türken inzwischen bereit sind, in einem sunnitischen Gottesstaat nach iranischem Modell zu leben. Ein lautes Ja zur Todesstrafe – die in vielen Bevölkerungen zum Leidwesen der Humanisten und Juristen ohnehin populär ist – würde Erdogan zu weiteren Schritten in der Klerikalisierung des Rechtswesens ermutigen, beispielsweise der stärkeren Ausrichtung des Straf- und Zivilrechts auf Prinzipien der Scharia und der Einführung einer Polizei zur Wahrung der Tugend und Bekämpfung der Sünde nach saudisch-iranischem oder Hamas-Modell.
Ausserdem würde ihm die Todesstrafe eine Möglichkeit geben, sich der wichtigsten Gegner – vor allem der Gülenisten und kurdischen Aktivisten – dauerhaft zu entledigen. Dass er ihre Verhaftung nur als eine Übergangslösung ansieht, hat er ja deutlich kundgetan. Auch in dieser Hinsicht imponiert ihm das iranische Vorbild.
Es ist die Zeit gekommen, das tradierte Bild, das sich die Welt von Erdogan gemacht hat, zu revidieren. Der tüchtige Bürgermeister von Istanbul, der milde Islamist von 2003, der erfolgreiche Wirtschaftsführer bis 2014 – das ist der Erdogan, der sich der Öffentlichkeit eingeprägt hat. Jahrelang beobachtete ihn die kemalistische Garde der alten Türkei mit Misstrauen. Ein Islamist, der den Pluralismus fördert und mit seinem Land Europa beitreten will, schien ihnen wenig glaubhaft.
In der Tat: Recep Tayyip Erdogan hatte aus der Katastrophe seines Ziehvaters Necmettin Erbakan gelernt, den das Militär 1997 als Premierminister absetzte und dessen Wohlfahrtspartei verbot. Jahrelang spielte Erdogan mit seiner auf Erbakans Trümmern errichteten AK-Partei den modernen, milden Islamisten im Duett mit seinem gleichfalls sich milde und modern gebärdenden Weggenossen Fethullah Gülen. Beide hatten ebenso wie Erbakan nichts anderes im Sinn als die Macht zu erringen und danach die Türkei umzukrempeln. Nur einer gelangte ans Ziel: Erdogan.
Bei aller Geradlinigkeit, mit der er über die Jahre hinweg seinen Weg verfolgte, hat auch er selbst sich gewandelt. Aus seiner Rhetorik geht hervor, dass er sich zunehmend radikalisiert hat. Der Einfluss des militanten Salafismus hat nicht nur das religiöse Klima in der Türkei geändert: er ging auch an Erdogan nicht spurlos vorüber.
Die Stärke und das Beharrungsvermögen der al-Qaeda, der Aufstieg des Daesh (IS) und die Proklamation des Kalifats durch einen – in Erdogans Augen – nobody müssen auf ihn tief gewirkt haben. Die Neigung der Araber, die Türkei als ein stilles Altwasser aus ihrer tumultgeladenen Welt auszuklammern, hat ihn verletzt. Dass er nicht zur Araberliga zugelassen wird während Djibouti und Somalia Mitglieder sind, ist für ihn unverständlich. Er möchte der unbestrittene Führer der Umma sein, der Gemeinschaft zumindest aller Sunniten, wenn nicht aller Moslems.
Um sich in diesem Umfeld zu behaupten, ist ein “milder” Islam albanischen oder bosnischen Typs nicht mehr gefragt. Der war Mode in den ersten Jahren der Erdogan-Herrschaft, als es darum ging, die Wirtschaft zu fördern und das Misstrauen des Westens und des Militärs abzubauen. Jetzt geht es um mehr: um die Stabilisierung einer islamischen Herrschaft in einem Land, das wichtig genug ist, die Führungsrolle weltweit beanspruchen zu können. Das erfordert, dass man sich in der Glaubensintensität nicht all zu sehr von Daesh & Co rechts überholen lassen darf.
Deswegen wird die Türkei in den kommenden Jahren einen crash course in politischem Islam absolvieren müssen. Ob es will oder nicht, wird das Volk seinem Führer folgen müssen: wie das geht, haben der Ausnahmezustand und das eben erfolgte Referendum gezeigt.
Ihsan al-Tawil
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La lunga recessione italiana ha lasciato un forte malcontento in quasi tutte le classi sociali, compresi imprenditori e professionisti. Ma è aumentato anche il divario tra i diversi gruppi. Piccola borghesia e classe operaia sono le più scontente.
Effetti di una lunga crisi
Che effetti ha avuto, e ha ancora oggi, sugli strati sociali del nostro paese la lunga recessione dell’economia iniziata nel 2008? Quali gruppi e quali categorie ha colpito maggiormente? Alcuni studiosi e istituti hanno iniziato a porsi queste domande. Nella sua ultima relazione annuale, la Banca d’Italia ha messo in luce che la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, aumentata nel corso degli anni Novanta, “non ha subito variazioni apprezzabili” dopo il 2008. Andrea Brandolini ha mostrato che l’ultima crisi ha colpito soprattutto i più giovani e i lavoratori manuali. Giovanni Vecchi, in una relazione a un convegno Istat, ha sostenuto che a pagare il prezzo più alto sono state le fasce meno abbienti.
Che dire delle altre classi sociali? Come hanno vissuto e come vivono oggi la crisi e i suoi effetti sulla loro condizione gli italiani che ne fanno parte? I dati che l’Istat raccoglie dal 1993 sul livello di soddisfazione delle persone residenti nel nostro paese per la loro situazione economica ci permettono di dare una prima risposta a questi interrogativi. Il malcontento che rilevano non dipende solo dalla situazione obiettiva del lavoro e del reddito, ma anche dalle aspettative che le persone hanno e dai loro gruppi di riferimento, dal senso di privazione relativa che nasce dal confronto con questi.
Secondo lo schema usato dai sociologi (basato su due criteri: la situazione di lavoro e quella di mercato) vi sono oggi in Italia quattro grandi classi: la borghesia, la classe media impiegatizia, la piccola borghesia e la classe operaia. Ma all’interno di ciascuna vi sono delle frazioni. Nella classe operaia, vi è una netta distinzione fra gli occupati nell’industria e occupati nei servizi. Nella borghesia, da un lato vi è lo strato più piccolo dei dirigenti, dall’altro quello assai più ampio degli imprenditori e dei professionisti. Nel 2001, la percentuale dei soddisfatti per la loro situazione economica cresceva, come ci si poteva attendere, man mano che si saliva nella piramide sociale, passando dalla classe operaia alle due medie e alla borghesia (tabella 1). Ma da allora la situazione è notevolmente cambiata.
Tabella 1 – Non tutti i ricchi piangono Percentuale di residenti in Italia (da 15 anni) molto o abbastanza soddisfatti della propria situazione economica, dal 2001 al 2016, per classe sociale di appartenenza:
Fonte: Elaborazioni su dati archivi Istat
Vi è solo un gruppo sociale che non ha risentito per nulla della lunga recessione: quello dei dirigenti. La percentuale dei soddisfatti in questo strato ha subìto solo una lievissima diminuzione prima del 2008 ed è oggi la stessa del 2001. Il malessere e lo scontento sono invece aumentati fra gli imprenditori e i professionisti, a tal punto che, dal 2012, è avvenuto un sorpasso un tempo impensabile: la classe media impiegatizia ha superato, in termini di soddisfazione, gli imprenditori e i professionisti (figura 1). Di conseguenza, nell’ultimo quindicennio, vi è stata una divaricazione fra le due frazioni della borghesia riguardo alle emozioni degli uomini e delle donne che ne fanno parte, alle frustrazioni che ricevono, al senso di privazione, alla sensazione che provano di non farcela, all’impressione di essere stati dimenticati dai partiti politici, dal governo e dal parlamento.
Figura 1 – Dirigenti e impiegati hanno patito meno la crisi Percentuale di residenti in Italia (da 15 anni) molto o abbastanza soddisfatti della propria situazione economica, dal 2001 al 2016, fra i dirigenti, gli imprenditori e i professionisti, e la classe media impiegatizia
Insoddisfazione generalizzata
Il malessere e il malcontento sono cresciuti anche nella classe operaia raggiungendo il picco nel 2013. Sono diminuiti nei tre anni successivi, ma restano più alti che all’inizio del periodo considerato. Solo fra gli appartenenti alla piccola borghesia il peggioramento è stato maggiore. Per questo, nel 2013 e nel 2015, vi è stato un altro sorpasso un tempo impensabile: gli operai hanno superato i lavoratori autonomi nel livello di soddisfazione per la propria situazione economica (figura 2).
Figura 2 – Piccolo borghesi e operai uniti nell’insoddisfazione Percentuali di residenti in Italia (da 15 anni) molto e abbastanza soddisfatti della propria situazione economica, dal 2001 al 2016, tra la classe operaia e la piccola borghesia
Dunque, la lunga recessione ha lasciato un forte malcontento in quasi tutte le classi in cui si articola la società italiana, un’insoddisfazione che è diminuita negli ultimi tre anni, ma che resta molto maggiore che all’inizio del nuovo millennio. Il malcontento è cresciuto soprattutto nella piccola borghesia e nella classe operaia, ma ha raggiunto anche la frazione più ampia della borghesia, quella degli imprenditori e dei professionisti.
Nell’ultimo quindicennio è aumentato inoltre il divario fra le classi. Parlare di una polarizzazione sociale dei sentimenti, di una contrapposizione fra la felicità delle classi elevate e lo sconforto di quelle più basse, è sicuramente esagerato. È indubbio tuttavia che, in termini di malcontento, la piccola borghesia e la classe operaia sono oggi più lontane di un tempo non solo dai dirigenti, ma anche dagli imprenditori e dai professionisti.