Aumenta l'ostilità per gli stranieri. E anche rispetto al 2017 aumenta l'odio verso "gli altri" e verso chi li aiuta. Alla presentazione del rapporto annuale, Gianni Rufini, il DG di  Amnesty International Italia, ha detto: 
   Lo avevamo denunciato con forza un anno fa, nella presentazione del Rapporto Annuale 2016- 2017, ed era la nostra massima preoccupazione fin dal 2015: il grave degrado del confronto politico e culturale nel nostro paese, con una deriva sempre più veloce verso il razzismo, l’odio e la violenza.
   L’ultimo anno lo ha confermato, non solo con il crescente spostamento dell’opinione pubblica e, soprattutto, del mondo politico verso posizioni xenofobe e discriminatorie, ma anche con l’esplodere della violenza in centinaia di casi in tutto il territorio nazionale. I recenti fatti di Macerata, che hanno prodotto giustificazione e sostegno da parte di molti verso il terrorista che ne è stato responsabile, e a seguire quelli di Palermo e di Perugia, in cui dei militanti sono stati aggrediti fisicamente da avversari politici, sono il sintomo di un imbarbarimento sempre più grave del nostro paese.
   Di fronte a questa grave degenerazione del dibattito politico e sociale, che lascia interdetta e attonita una gran parte dei cittadini italiani, non sembra che si siano attivati quei meccanismi che dovrebbero garantire il rispetto dei diritti e l’agibilità degli spazi democratici nel nostro paese. Politica, magistratura, forze dell’ordine e media sembrano tutti inerti, se non addirittura complici, di fronte a questo fenomeno, che sta letteralmente intossicando non solo il rapporto tra italiani e migranti ma anche quello tra italiani e italiani.
   Oppositori politici, persone LGBTI, donne, Rom, poveri e altre persone vulnerabili entrano sempre più spesso nel mirino, vittime di una intolleranza ed emarginazione sempre più spietata, che disumanizza chi è diverso da “noi”, in una logica di ostilità e contrapposizione. Nell’ambiente perversamente favorevole dei social media, questa intolleranza si traduce ormai sistematicamente in odio, insulto, offesa grave, incitamento alla violenza.
   Il linguaggio di odio, con il suo corredo di fake news, è moneta corrente sui mezzi di comunicazione e rischia di creare una società sempre più divisa, favorendo gravi passi indietro nei confronti dei diritti umani. Per questo Amnesty International ha scelto di combattere innanzitutto contro l’odio, nello sforzo di riaprire spazi di confronto ragionevolmente civile tra i cittadini, e ci siamo dati degli strumenti per farlo.
   La Task Force Hate Speech
  Innanzitutto abbiamo iniziato, già da due anni, a proporre agli attivisti un impegno attivo sulla Rete, per monitorare e contrastare la diffusione dell’odio online. Abbiamo creato una task-force, oggi composta da 80 persone, e destinata a crescere significativamente, che interviene in conversazioni in cui il livello di discriminazione e odio nei confronti di migranti, persone LGBTI e rom è inaccettabile, in un’ottica di diritti umani uguali per tutti.
   Eccone i numeri:
• 186 attivazioni durante fase pilota (durata giugno-settembre 2016) + 319 attivazioni da inizio progetto (settembre 2017) a oggi.
• da settembre 2017 la task force è entrata in piena attività con un incremento di azione rispetto al pilota del 63%".
• Le tematiche legate a migranti e rifugiati su cui interveniamo: Islamofobia, xenofobia, terrorismo, politiche securitarie
• Tematiche legate a rom: nomadismo, furto, finta povertà • Tematiche legate a LGBTI: odio verso l’omosessualità e la diversità, stereotipizzazioni di genere, rifiuto totale delle famiglie non tradizionali
   Attualmente il 50% degli attivisti è impegnato nel supporto alle segnalazioni del Barometro dell’Odio, all’interno della campagna Conta Fino a 10
Conta fino a 10: il Barometro dell’odio
In occasione della campagna elettorale 2018, monitoriamo i profili facebook e twitter di tutti i candidati ai collegi uninominali per le elezioni di Camera e Senato dei primi quattro partiti e coalizioni, per un totale di 1.392 candidati. Più i profili di tutti e 17 i leader più i 9 candidati a presidente della regione Lazio e i 7 a presidente della regione Lombardia.
Si tratta di una grande campagna di attivismo: oltre 600 persone su tutto il territorio che hanno raccolto quasi 500 dichiarazioni nei primi 10 giorni. Abbiamo coinvolto istituti di ricerca, università, ed esperti sia sulla metodologia che sulla narrativa alternativa e fact checking.
Le dichiarazioni dei candidati vengono classificate in tre gruppi:
• giallo – linguaggio offensivo/che veicola stereotipi
• arancione – grave, discriminazione/razzismo
• rosso – molto grave, incitamento all’odio e alla violenza
I primi risultati ci parlano di 117 candidati che sono autori di circa 500 dichiarazioni. Rappresentano l’8% dei 1.425 candidati monitorati (parlamentari + leader + regioni).
Il 42% delle dichiarazioni segnalate provengono da leader. Il 37% da candidati parlamentari e il 21% da candidati presidenti. 1 leader su 3 fa ricorso a discorsi offensivi, razzisti e di odio.
Il 50% delle dichiarazioni sono da attribuire a candidati della Lega, il 27% a Fratelli d’Italia, il 18% a Forza Italia
I risultati (assemblati per partito) vengono pubblicati quotidianamente sul nostro sito (https://www.amnesty.it/barometro-odio/). Alla fine del progetto, analizzeremo a fondo e pubblicheremo i materiali raccolti in un rapporto.
Ecco alcuni esempi delle dichiarazioni rilevate:
  
Giorgia Meloni, Video su Facebook - 17/02
«L'Istat fotografa quella che noi chiamiamo la sostituzione etnica».
C'è un problema che l'immigrazione clandestina provoca un aumento dei reati. [...] Dobbiamo difendere l'identità [...] i confini e poi il resto.»
“Siamo vittime di un disegno di pulizia etnica per cui gli italiani scappano e arrivano gli immigrati, perché tanto in Italia non si fanno più figli”
 
Ugo Cappellacci, Forza Italia, post su Facebook - 12/02
«Non sono razzista, ma questo è razzismo alla rovescia». «I nostri pensionati meritano altro.... io non ci sto più a tutto questo»
 
Roberto Fiore, L’Italia agli Italiani, Twitter, 12/2
“#Macerata, Lucky Awelima, tra gli squartatori cannibali di #Pamela, alloggiava a nostre spese in un hotel 4 stelle, che fortuna 'sto Lucky, che risorse questa immigrazione!”
 
Silvio Berlusconi, Twitter - 19/02
«Qualunque persona responsabile si rende conto che 600 mila persone che vivono ai margini della società sono una bomba sociale pronta a esplodere. »
  
Matteo Salvini, post su Facebook - 8/02
«Nella dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo c'è scritto che la donna vale meno dell'uomo, che la libertà di pensiero e di parola è limitata rispetto a quanto imposto dal Corano. C'è dell'INCOMPATIBILITÀ con i nostri VALORI.»
Matteo Salvini, Video e post su Facebook - 17/02
«ANZIANI costretti a rovistare negli scarti del mercato, CLANDESTINI protestano perché non "gradiscono" il cibo...!»
  
Stefania Pucciarelli, Lega, post su Facebook - 17/2 «Al centro di accoglienza di Briatico un Nigeriano ha arrostito un cane. Intanto La Boldrini continua a dire che dobbiamo imparare dallo stile di vita dei migranti»
 
 Benedetta Fiorini, Forza Italia, Twitter - 14/02
«#Razzismo contro gli italiani a Sassuolo»
  
Attilio Fontana, Twitter - 17/02
«L'insicurezza? Colpa degli immigrati»
  
Vittorio Sgarbi, Forza Italia, post su Facebook - 14/02 4
«La figlia di Gino Strada può stare tranquilla: non troverà fascista che voglia fare sesso con lei, e tanto meno riprodursi in lei; non vorranno darle una gioia, sacrificandosi. La figa è un’altra cosa, e non ha orientamento politico. Per questo faticherà a trovare anche comunisti disposti a fare sesso con lei. Diciamo che la questione non è politica, e finirei qui.».
 

Il Consiglio di stato ribadisce il divieto di istituire interi corsi in inglese, impedendo alle università italiane di competere a livello internazionale. Così le famiglie italiane spenderanno all’estero, ma gli studenti stranieri non verranno in Italia.

Due sentenze contro l’università italiana

   Alla lettura della sentenza del Consiglio di stato del 29 gennaio 2018, che dà seguito alla sentenza della Corte costituzionale di circa un anno fa (n. 42/2017), è impossibile non associare il detto latino secondo cui “Giove rende cieco chi vuole perdere”. Con le due sentenze infatti è stato inconsapevolmente scritto l’epitaffio dell’università italiana, intesa come istituzione in grado di competere nella formazione dei giovani con le migliori accademie straniere.

   Le regole dettate dalle sentenze del Consiglio di stato e della Corte costituzionale sono sostanzialmente due. Primo, le università italiane non possono istituire interi corsi di studio in lingua straniera, salvo che non predispongano corsi omologhi anche in italiano. Secondo, le università possono tuttavia prevedere singoli insegnamenti in lingua straniera, anche se non ve ne sono di corrispondenti in lingua italiana. A questa facoltà però si può fare ricorso – ammonisce la Consulta – secondo “ragionevolezza proporzionalità e adeguatezza, così da garantire una complessiva offerta formativa rispettosa del primato della lingua italiana”.

   Con la prima regola, in sostanza, si impedisce alle università italiane di competere nel mercato dell’insegnamento in inglese, vale a dire di competere con il resto del mondo. Molti studenti italiani non sceglieranno le università italiane perché l’inglese è ormai richiesto come obbligatorio per tutte le attività e professioni di livello medio/alto. Gli studenti stranieri non verranno Italia, perché oggi la lingua comune dell’apprendimento è l’inglese. L’unica possibilità di istituire un corso di studi esclusivamente in inglese è quella di crearne uno omologo in italiano. Ma è evidente che l’incremento dei costi (ulteriori docenti, spazi e spese amministrative) in un quadro di finanziamento già ridotto all’osso, rende difficile questa opzione.

   Si poteva sperare che le corti salvassero almeno i corsi di studio che hanno senso solo in inglese, ad esempio, le relazioni o il diritto o l’economia internazionali. È lecito insegnare solo in inglese ai nostri futuri diplomatici? La Corte costituzionale è inflessibile: “il divieto vale anche nei settori nei quali l’oggetto stesso dell’insegnamento lo richieda”. Anche chi non ha familiarità con l’inglese deve poter diventare un diplomatico.

   Dalla regola seguono due corollari, uno finanziario e uno sociale: a) le famiglie italiane spenderanno all’estero e le famiglie straniere non spenderanno in Italia; b) i figli di famiglie benestanti otterranno comunque una educazione in inglese all’estero, i figli di famiglie non benestanti, seppure capaci e meritevoli, troveranno nell’università italiana un ascensore sociale fermo al piano terra.

   La seconda regola consente alle università di prevedere singoli insegnamenti in inglese. Sennonché, come sanno tutti coloro che vivono nell’università, se non vengono organizzati in un corso che porta a un titolo spendibile sul mercato, come ad esempio una laurea magistrale, gli insegnamenti sono scarsamente appetibili. Perché uno studente dovrebbe fare lo sforzo di frequentare un corso in inglese, con relativi esami in lingua, se non gli porta nessun titolo che certifichi le sue competenze nel mondo del lavoro? Di fatto, questi singoli insegnamenti saranno scelti – come avviene oggi – prevalentemente dagli studenti stranieri, in mobilità internazionale.

Un ibrido senza mercato

   Naturalmente le due regole prese assieme rendono possibili corsi “ibridi”, ossia parte in italiano e parte in inglese. Qui abbiamo anzitutto un problema interpretativo. Il divieto di interi corsi esclusivamente in lingua straniera lascerebbe aperta – in termini letterali – la possibilità di disegnare un corso con un solo insegnamento in italiano e il resto in inglese. Tuttavia, una lettura teleologica delle sentenze si oppone all’opzione “furbetta”: è chiaro infatti che le Corti vogliono salvaguardare il ruolo centrale della lingua italiana nell’insegnamento universitario. Peraltro, il mercato di questi corsi sarebbe puramente nazionale e assai ristretto. Infatti, non potrebbero comunque essere rivolti agli studenti stranieri, dato che la presenza di insegnamenti in italiano presenta ostacoli per loro insormontabili. E non potrebbero essere rivolti nemmeno agli studenti italiani che non sanno l’inglese, perché, in questo caso, gli ostacoli sarebbero rappresentati dagli insegnamenti in inglese.

   In sostanza, in termini di mercato, potremmo dire che i giudici, con il divieto di corsi in inglese costringono l’università italiana a limitare la produzione a un prodotto non competitivo – corsi in italiano – ovvero a organizzare una produzione locale (in italiano) e una per l’esportazione (in inglese). Consentono all’università di avere insegnamenti in lingua, ma questi non possono essere assemblati in un prodotto competitivo – interi corsi in inglese – cosicché il loro valore è molto ridotto. Consentono all’università di produrre corsi ibridi, ma il mercato per questi non è nemmeno nazionale.

 

Pietro Manzini -- lavoce.info

   The 2013 Polity world map of democracies vs. autocracies and their mixed forms called anocracies shows distressingly few blue countries, i.e. true democracies. The democracy index of several countries had to be downgraded since they lost some of their democratic attributes and gained more autocratic features. Turkey comes to mind, Egypt, Hungary, India, Cambodia and Poland. The blue patches are shrinking.

Polity IV 2013Original by Countakeshi - http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b8/BlankMap-World-large-limited-recognition.png, http://www.systemicpeace.org/polity/polity4.htm, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37242047

   A temporary phenomenon? Will democratic upheavals topple dictatorships like it happened in the past? The sad answer is no. The “Arab Spring” movement was perhaps the last event in history which showed popular masses taking to the streets and forcing governments to resign – at least temporarily.

   Autocracies are fast developing surveillance and control systems which are much more effective than traditional repression and police rule. The dictators’ new digital toolbox contains sophisticated instruments such as face recognition, data collection and analysis, DNA sample banks, all elaborated and analyzed with artificial intelligence.

   China, for instance, is already well advanced in the art of reading people’s minds and anticipating their behavior and intentions. By compiling and evaluating all data on a person’s telephone, internet and smartphone communications, plus shopping habits, travel, education, entertainment and social activities, the government will soon know every citizen better than the person him- or herself. In China, Big Brother is about to become reality. Other governments will follow. Egypt, Turkey, Hungary are on the way.

   Perhaps there is only a time window of five to ten years left in these countries for citizens to protest or rise up against an oppressive government. After that, the government will be in full control of people’s minds. Consequently, there will only be two types of citizens remaining: the majority of people who behave and do not even dream of criticizing or opposing the government, and the minority scared stiff, vegetating in jail or on death row. Huge new penitentiary facilities will have to be built, and there will be a search for safe places, especially islands like Alcatraz, Guantanamo or Imrali, the Turkish prison island.

   Turkey, in fact, is persecuting all people who dare to criticize the war against Kurds in Turkey itself and in neighboring Syria and Iraq. People are arrested for having on the smartphone the “ByLock” messaging app  which allegedly serves communications among members of the “terrorist” Gülen sect,  or for supporting petitions on change.org. Turkey plans to build 228 additional prisons to reduce severe overcrowding in existing facilities by some additional 50,000 people arrested since July 2016. More being arrested almost every day.

   Calming a restive population is the vital need of all autocracies. Modern technology offers a low-cost approach which can obviate the enormous expense of traditional secret policing and snooping with its oppressive and error-prone toolkit. Autocracies which master the art of modern mind control become virtually invincible from within. No dissidents, no opposition, only happy, quiet citizens. The only way such a system could collapse is because of internal rivalries among the ruling clique. However, the collapse would in all likelihood not lead the country to more democratic governance but to another, perhaps even more fearsome autocracy.

   As surveillance and mind control technologies are fast advancing and spreading, every year that passes is a boon for dictatorships. For them, for the first time in human history, the promise of eternal, unchecked rule is beckoning. Where does that leave democracy?

 Heinrich von Loesch

 Update

"Chinese police have used facial recognition technology to locate and arrest a man who was among a crowd of 60,000 concert goers."

   Der türkische Aussenminister Mevlüt Çavuşoğlu droht den USA mit Abbruch der Beziehungen weil sie die kurdisch-arabische Miliz YPG in Nordsyrien unterstützen. Ein Novum in den Beziehungen zwischen NATO-Mitgliedern. Lachhaft, könnte man meinen. Warum sollten die Türken sich in den Fuss schiessen?

   Das Fehlen diplomatischer Beziehungen zu den USA wäre für Ankara ein schweres Handicap. Nicht nur militärisch und wirtschaftlich sind beide Staaten eng verbunden: die Türkei hat auch viele Jahre lang Hilfsgelder von Washington erhalten. Im Jahr 2016 unterstützte Amerika die Türken mit 155 Millionen Dollar, vor allem als Beitrag zu den Aufwendungen für Syrien-Flüchtlinge und zur Verbesserung des Haselnuss-Exports.

   Nicht erst seit dem versuchten Staatsstreich im Juli 2015 hat Ankaras aggressives Auftreten seinem Ansehen in Europa schwer geschadet. Massenverhaftungen, Abschaffung der Pressefreiheit und der parlamentarischen Immunität haben die Türkei zum politischen Paria in Europa gemacht. Nun will die Türkei offenbar den Paria-Status auch in den USA erlangen, vergleichbar mit Venezuela und Iran.

   Weshalb dieses suizidiale Streben?

   Es gibt zwei Erklärungsansätze: das Dogma der Moslembrüder und die bevorstehenden Wahlen.

   Die regierende AK-Partei hat, besoffen von ihrer noch jungen Machtfülle und ihrem Erfolg alle Masstäbe über Bord geworfen. Realitätsferne Dogmatiker haben das Sagen: sie sehen die Türkei als den einzigen, richtigen Gottesstaat der Sunniten, dessen Aufgabe es ist, schrittweise die Gemeinschaft der Gläubigen (Umma) und danach die ganze Welt dem richtigen Glauben zuzuführen.

   Noch ist das Land nicht ganz unter der Fuchtel der AKP. Drei Wahlen gilt es 2019 zu gewinnen: Regional-, Parlaments- und Präsidentschaftswahlen. Noch ist nur etwa die Hälfte der Türken bereit, ihr Kreuzchen bei der AKP zu machen, so weit Umfragen zu trauen ist.

   Das bewährteste Mittel, Wahlen in der Türkei zu gewinnen, ist es, den Nationalismus anzufachen. Nichts löst mehr Begeisterung im türkischen Wahlvolk aus, als ein kleiner Krieg gegen die verhasste Minderheit der Kurden, ergänzt durch ein bisschen Unterdrückung der religiösen Minderheiten der Alawiten, Sufis, Jesiden und Christen.

   Insofern führt der Weg zur Erlösung der Welt durch die Moslembrüder über den Kampf gegen die Kurden, die ironischerweise auch brave Sunniten sind.

   Aus der Perspektive eines Dogmatikers in Ankara gesehen ist Amerikas Freundschaft mit den kämpferischen Kurden in Syrien daher als doppelt feindlich zu werten: zum Einen behindert es den Herrschaftsdrang der Türken, zun Anderen blockiert es das Vordringen des echten Glaubens. Ein doppeltes Ärgernis also, das schärfste Massnahmen fordert.

   Zu den Qualifikationen der Zeloten in der AKP gehört nicht unbedingt Weltläufigkeit.  In der Perspektive des “Alles Wissen der Welt steht im Koran” ist die Türkei eine Weltmacht, die bestimmt, was richtig ist und was falsch. Was Ankara sagt ist Gesetz, und die Welt hat sich danach zu richten. Dass die USA trotz mehrerer Ermahnungen sich nicht danach richten, ist tadelnswert und verlangt Bestrafung.

   Soweit die Grundstimmung. Nun aber kommt Mevlüt Çavuşoğluins Bild. Als Aussenminister mit langer Brüssel-Erfahrung ist er weltläufig genug um zu wissen, mit welcher Reaktion auf seine Worte zu rechnen ist. Dass er trotzdem immer wieder mit radikalen Vorschlägen auffällig wird, hat Gründe.

   Die AK-Partei ist kein monolithisches Gebilde. Seit ihrer Gründung 2001 ist sie schrittweise von einer islamisch orientierten liberalen und Wirtschaftspartei zu einer konfessionell-dogmatischen Partei geworden. Die Liberalen unter Führung des ehemaligen Premiers, Aussenministers und Präsidenten Abdullah Gül haben die Partei entweder verlassen oder wurden hinausgedrängt. Letztes Opfer der Säuberung war der “Professor” und ex-Premier Ahmet Davutoğlu.

   Die jetzt regierende eiserne Garde stellt den inneren Kreis dar, der Präsident Recep Tayyip Erdoğan trotz der inneren Zwistigkeiten und einem nur mühsam unterdrückten Korruptionsskandal treu blieb. Dazu gehören Ministerpräsident Binali Yildirim – angeblich langjähriger Vermögensverwalter der Erdoğan-Sippe – , der AKP-Gründervater Bülent Arınç, und eben Mevlüt Çavuşoğlu.

   Die Aufmerksamkeit des Auslandes ist seit Jahren auf Erdoğan fixiert. Er wird als Urheber der Demontage der Demokratie seit Juli 2015 gesehen. Er müsse abtreten, damit die Türkei zu Rechtsstaatlichkeit zurückkehren könne.

   Dabei wird nicht erkannt, dass Erdoğan trotz seines unbezweifelbaren Narzissmus nur das eloquente Aushängeschild der AKP-Hardliner ist. Sein Charisma ist einzigartig und unersetzlich für die AKP. Doch hinter ihm stehen Andere, die das Werk fortsetzen würden, sollte ihm etwas zustossen. Leute wie Çavuşoğlu, die härter, dogmatischer sind, als es Erdoğan je war. Er hat sich doch ein Mass an Realismus, an Kompromissbereitschaft bewahrt, das den Hardlinern abgeht. Das zeigte sich unlängst in seinem Verhältnis zu Putin, das er binnen weniger Monate von böser Feindschaft zu Freundschaft mutieren liess.

   Es ist daher fraglich, ob sich Erdoğan bereit fände, den Abbruch der Beziehungen zu Washington ins Auge zu fassen.  Çavuşoğlu hat die USA zusätzlich verunglimpft, indem er unterstellt, Washington habe Kämpfer des Islamischen Staats entkommen lassen, um einen Vorwand zu haben, gemeinsam mit der YPG den Kampf gegen den IS fortzusetzen. “The U.S. is not touching Daesh members in Syria as an excuse to continue working with YPG/PKK terrorist group.”  Andere Beobachter meinen hingegen, die Schonung der übrig gebliebenen IS-Kämpfer durch die Amerikaner verfolge den Zweck, sie als nützliche Feinde der iranischen Expansion in Syrien zu nutzen.

   Dass die türkische Invasion in der syrischen Grenzprovinz Afrin trotz grossen Aufwands an Militär, arabischen Söldnern und Material bislang nur zäh vorankommt, facht die in Ankara herrschende Paranoia an, die in Amerika mittlerweile einen Feind statt eines NATO-Verbündeten sieht, der "Allianzen mit Terrorgruppen" unterhält, wie der türkische Premier Binali Yildirim klagt. Der grosszügige Umgang mit dem Begriff Terrorgruppe macht Ankaras Anspruch nicht glaubhafter. Washington wird sich nicht vorschreiben lassen, wen es sich in Syrien als Alliierten aussucht.  

Ihsan al-Tawil

 

   Der erste “Weltreport über Ungleichheit prophezeit soziale und wirtschaftliche Katastrophen, falls kein Mittel gegen die wachsende Ungleichheit gefunden wird. Thomas Piketty, der Autor des Bestsellers Das Kapital im 21. Jahrhundert und seine Co-Autoren haben massives Zahlenmaterial vorgelegt, das die zunehmenden Exzesse des Reichtums angesichts arm bleibender oder verarmender Massen dokumentiert. Im Extremfall, im Nahen Osten nämlich, beziehen die zehn Prozent Bestverdienenden zusammen angeblich 61 Prozent des Gesamteinkommens.

   So sehr man den Autoren zustimmen möchte, dass eine wachsende Einkommenskluft zwischen Oben und Unten bedrohlich anmutet, so unklar erscheinen die Gründe, warum die Entwicklung im heutigen Kapitalismus quasi naturgesetzlich abläuft, falls nicht kraftvoll gegengesteuert wird.

   Hier sei ein unorthodoxer Versuch einer Erklärung gewagt, die in ein Aktionskonzept mündet, das dem der Piketty-Adepten zuwider läuft. Und ziemlich viel mit Trumpismus zu tun hat.

 

Ein Tag wie jeder andere.

   Zwei Nachrichten liefen heute ein:

Ad 1: In Brescia, einer Industriestadt Norditaliens, wurde ein 14-Jähriger von der Polizei mit drei Kilo Kokain im Schulranzen geschnappt. Zuhause besass er weitere 12 Kilo des Rauschgifts. Im Rucksack befand sich auch eine Präzisionswaage, die er für den Verkauf der Ware im Bahnhofsviertel von Brescia brauchte.

Ad 2: Ayrton Little, ein 16-jähriger Afro-Amerikaner in Louisiana, wurde von der Elite-Universität Harvard zum Studium zugelassen. Riesige Freude bei Freunden und Familie.

   Zwei unterschiedliche Versuche junger Menschen, die tradierte Altersstruktur des Menschenlebens zu durchbrechen und Erfolg zu erzwingen lange bevor er Altersgenossen vergönnt ist. Frühes Unternehmertum, frühe Begabung kombiniert mit Fleiss – man denkt nicht von ungefähr an Wunderkinder-Beispiele unserer Tage: Frankreichs Präsident Emmanuel Macron ond Österrreichs Premier Sebastian Kurz.

 

Aber was hat das mit Pikettys Theorem zu tun?

   Ziemlich viel, nach meiner Meinung.

   Warum sind die oberen zehn Prozent weltweit so erfolgreich, während die neunzig Prozent auch fleissig strampeln und dennoch abgehängt werden? Sind die zehn Prozent begabter, fleissiger, von Haus aus begünstigter? Vielleicht. Doch das reicht nicht aus um zu erklären, warum ihr Anteil am Volkseinkommen wächst. Begabung, Fleiss, Heimvorteil könnten begründen, warum es in jeder Generation und jedem Land wieder zehn Prozent gibt, die mehr Erfolg haben als der Rest. Das sichert ihnen zwar einen überproportionalen Anteil am gesamten Einkommen – aber nicht jenen wachsenden Anteil, den Piketty behauptet. Dazu muss noch etwas anderes kommen.

   Aber was?

   Stellen wir uns als hilfreiche Denkfigur den Standardablauf eines Menschenlebens in der heutigen Wirtschaft als einen Hindernisparcours vor. Kaum hat man lesen, schreiben und denken gelernt findet man sich mit vielen dummen Menschen in einer Schule eingesperrt, die einem ungeheuer viel Zeit stiehlt, Kreativität hasst und nur zwei Fluchtwege lässt: nach unten (Typ Brescia) oder nach oben (Typ Harvard). Hat man Schule und vielleicht Wehrdienst überstanden, so steht der Weg ins Leben endlich offen.

   Unverdrossene wählen eine weitere Ausbildung und Spezialisierung, die erneut viel Zeit stiehlt und oft statt nützlicher Kenntnisse nur einen Titel liefert. Andere suchen direkt ihren Weg empor in die Region der zehn Prozent und sehen sich mit tausend Hindernissen konfrontiert: Berufe, die man nur ausüben darf, wenn man einen Titel, eine Zulassung hat. Kredit, den man nur erhält, wenn man die Zulassung hat und Sicherheiten bieten kann.

   Hat man trotz aller Hindernisse endlich seine einträgliche Nische gefunden und kratzt man schon am unteren Rand der Zehn-Prozent-Sphäre, so droht einem der allgemeine Jugendwahn, nämlich wegen fortgeschrittenen Alters aussortiert zu werden. Und noch ein paar Jahre später droht der endgültige Jobverlust, Verrentung genannt. Im oft besten Männer- oder Frauenalter wird man als Wirtschaftsabfall gestempelt, und die Steuer- oder Rentenbehörde verbietet einem womöglich weitere Arbeit oder bestraft Arbeitssucht oder Gewinnsucht mit einem scharf steigenden Einkommensteuer-Hebesatz.

 

Wider das Standardleben

   Das Standardleben der 90 Prozent verläuft also in einem ausgeklügelten System zur Verhinderung von sozialem und wirtschaftlichem Aufstieg. Schulzwang, Studium, Berufsausbildung, Qualifikation, Zulassung, Prüfungen, Zeugnisse, Diplome, Rentenbescheide, Friedhofsgebühren sind Instrumente eines repressiven Sozialwesens, welches das Individuum an seiner Entfaltung hindert, damit es nicht stört und der Gemeinschaft keinen Schaden zufügen kann.

   Analphabeten, Rechtsüberholer, Autodidakten, Traumtänzer sind nicht vorgesehen und nicht erwünscht.

   Um zu den zehn Prozent aufzusteigen braucht man entweder das Glück, durch Herkunft vor den Folterinstrumenten der modernen, kapitalistischen Gesellschaft und dem damit verbundenen Zeit- und Kraftverlust bewahrt zu werden, oder ungewöhnliche Stärke, um sich dagegen zu behaupten.

   So weit, so gut. Warum aber fällt den zehn Prozent ein wachsender Anteil am Kuchen zu? Ganz einfach, weil beim Aufstieg in die Zehn-Prozent-Zone die Folterinstrumente der Gesellschaft graduell unwirksam, belanglos werden. Niemand prüft, ob der Chef einer erfolgreichen Handwerksfirma lesen und schreiben kann. Er hat Leute, die das für ihn tun. Ein erfolgreicher Bankier braucht kein Studium der Betriebswirtschaft und des Bankwesens nachzuweisen, nicht einmal ein Abitur. Eine Spekulantin oder Investorin frägt man nicht, ob sie das Rentenalter überschritten hat. Das wäre zu unhöflich.

 

Keine Hindernisse für die Erfolgreichen

   Je höher der Zehn-Prozenter steigt, desto leichter kippen die Hindernisse weg, die die Gesellschaft auf den Parcours gestellt hat, desto geringer wird der Zeit- und Kraftverlust, den die Gesellschaft mit ihren Regeln verursacht. Dadurch ergibt sich ein Turbo-Effekt, der es dem Zehn-Prozenter gleichsam spielerisch ermöglicht, sein oder ihr Einkommen und Vermögen im Vergleich zu den 90 Prozent zu maximieren: arbeitend bis zur Bahre oder Demenz.

   Noch etwas unterscheidet die Zehnprozenter von den 90 Prozent: Bei den wirtschaftlich Erfolgreichsten darf man in einer auf Wettbewerb basierenden Wirtschaft vermuten, dass Maximierung des Einkommens und Vermögens ihre Haupt-Triebfeder ist.  Nicht notwendigerweise ist das auch bei den 90 Prozent der Fall. Man vergleicht gerne die deutsche Kanzlerin mit dem türkischen Präsidenten Erdogan -- zwei Politiker, die ähnlich lange an der Regierung sind. Kanzlerin Merkel wird eines Tages wohlhabend, aber nicht reich in den Ruhestand gehen; Präsident Erdogan und seine Familie haben ein riesiges Vermögen angesammelt, angeblich Milliarden; der Aufstieg zu den 10 Prozent ist ihnen fraglos gelungen.

   Das Beispiel Merkel zeigt, dass zu den Hindernissen, die die Gesellschaft errichtet hat, auch Lockungen gehören, die den aufstrebenden jungen Menschen vom Streben nach Aufstieg in die 10-Prozent-Schicht abhalten. Alle möglichen demotivierenden Zielsetzungen offeriert die Gesellschaft: Dienst am Volke, an der Partei oder der Arbeiterklasse, Berühmtheit, Menschenliebe oder Tierliebe, Ressourcenschutz, wissenschaftlicher oder sportlicher Erfolg: eine Myriade Zielsetzungen, die mit der Einkommens- und Vermögensmaximierung konkurrieren.

 

Oder Glück im Jenseits?   

Wichtig, wenn nicht gar dominant unter den konkurrierenden Lockungen, ist Religion.  Je weniger vereinbar die Religion das Streben nach Erfolg im Diesseits mit dem Streben nach Glück im Jenseits gestaltet, desto stärker werden die 90 Prozent von der Wohlstandsmaximierung abgelenkt.  Der Bettelmönch, die Klosterfrau und der islamische Selbstmord-Märtyrer stellen Extreme dar.

   Logischerweise fällt es den 10 Prozent in stark religiös geprägten Gesellschaften besonders leicht, sich von den 90 Prozent abzusetzen.  Als Ausnahme von der Regel gilt jene Variante des Calvinismus-Protestantismus, die angeblich wirtschaftlichen Erfolg im Diesseits als Anwartschaft für Glück im Jenseits ansieht.  Es wird gerne behauptet,  calvinistisches Denken habe inzwischen das ganze Christentum durchdrungen und dadurch das enorme wirtschaftliche Wachstum der vergangenen Jahrzehnte ermöglicht.

   In frühen Zeiten galt Einkommensmaximierung an sich als anrüchig.  Europas Elite beispielsweise strebte nach Waffenruhm, Heldentum, Grundbesitz, Untertanen, Kolonien, nach dichterischem oder künstlerischem Ruhm. Der nach 10-Prozent-Rang Strebende wurde gern als Koofmich verspottet, als Neureicher, als Angeber.

 

Mickrige performance

   Wenn die Gesellschaft dem jungen Menschen den mit Hindernissen und Lockungen gespickten Parcours vor die Füsse legt, darf sie sich nicht wundern, wenn die wirtschaftliche performance der neunzig Prozent mickrig bleibt.

   Die angelsächsischen Länder sehen die sich öffnende Schere zwischen den Einkommensanteilen der zehn und der neunzig Prozent traditionell locker, als quasi-naturgesetzliche Entwicklung und nicht sonderlich tadelnswert. Die Kontinentaleuropäer hingegen mögen diese Tendenz nicht und versuchen -- siehe Piketty & Co -- gegenzusteuern.

   Die klassische linke Reaktion verlangt, die von den repressiven Instrumenten der Gesellschaft erzeugte Problematik mit mehr Repression zu beantworten. Das Instrument der Wahl: stärkere Besteuerung hoher Einkommen und grosser Vermögen, kombiniert mit ausgleichender Sozialpolitik. Eine Bonanza für die Bürokratie.

   Die klassische rechte Reaktion im Sinne der US-Republikaner und ihres Präsidenten wäre es, die als repressiv erkannten Instrumente der Gesellschaft abzuschaffen oder abzumildern. Beispiel: home schooling statt Schulpflicht. Aufhebung jeder Art von Rentenalter. Befreiung von Versicherungspflicht und der Zwangsmitgliedschaft in Berufsverbänden. Abschaffung von Meistertiteln, Diplomen und anderen Voraussetzungen der Berufsausübung. Vor allem: Beseitigung der Einkommensteuer-Progression. Freie Fahrt dem Talentierten und Mutigen, wenn nötig auf Kosten der Gesellschaft.

   Jedes Land muss seinen Weg zwischen den Extremen suchen.

Heinrich von Loesch