Il tasso dei laureati italiani che emigrano stabilmente all’estero è oggi al 4,7 per cento ed è raddoppiato tra il 2011 e il 2015. Partono per trovare un lavoro più qualificato. Il problema è dunque la drammatica incapacità del nostro paese di creare opportunità di impiego di alto livello.
Dopo la laurea, l’estero
Hanno fatto discutere le recenti affermazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti sui giovani italiani che migrano all’estero. Il ministro ha infatti dichiarato di conoscere “gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata perché sicuramente il nostro paese non soffrirà a non averli più tra i piedi”. Poletti conosce forse qualche giovane emigrato che – a suo avviso – vale poco, ma le conoscenze aneddotiche non aiutano a stimolare un dibattito serio sulla questione.
Una base di riflessione più solida è invece offerta dai dati Istat dell’indagine 2015 sui laureati italiani. In un nostro lavoro recente abbiamo ricostruito l’identikit di chi emigra e ne abbiamo confrontato gli esiti professionali con quelli di chi resta in Italia. Anzitutto i dati Istat 2015 indicano che un laureato italiano su venti (4,7 per cento) risiede all’estero a quattro anni dalla laurea. Equivale a dire che ogni anno 14mila laureati migrano stabilmente all’estero (peraltro il dato è probabilmente sottostimato perché l’indagine Istat non raggiunge tutti i laureati che migrano).
Ancora più eclatante è il fatto che il tasso di emigrazione all’estero è raddoppiato rispetto alla precedente indagine di quattro anni fa: dal 2,4 al 4,7 per cento. L’Europa continentale (soprattutto Germania e Francia), la Gran Bretagna e i paesi scandinavi sono le mete preferite, mentre la migrazione nel Sud o Est Europa e quella extra-europea restano minoritarie.
I laureati che migrano provengono più spesso da università del Nord Italia e dalle lauree scientifiche, come matematica e fisica, da ingegneria e informatica oppure hanno una laurea in lingue o studi internazionali. Si sono diplomati più spesso in un liceo, hanno ottenuto più frequentemente un voto di 110 e lode e hanno più probabilità della media di aver frequentato programmi di scambio internazionale durante gli studi universitari (generalmente, l’Erasmus). Le differenze rispetto a chi resta non sono molto forti, ma nel complesso è difficile sostenere che il nostro paese esporti laureati di scarso valore di cui non si sentirà la mancanza.
Un lavoro migliore e redditi più alti
Utilizzando la tecnica statistica del propensity score matching, abbiamo confrontato i redditi netti di chi emigra e di chi resta, aggiustati per il costo della vita nei paesi di destinazione. Ebbene, chi emigra guadagna il 36 per cento in più (dato in crescita rispetto al valore del 27 per cento registrato nel 2011). Non è solo una questione di redditi. I nostri modelli statistici indicano che chi emigra all’estero svolge più spesso lavori più qualificati (+6,8 per cento) e percepisce di avere migliori opportunità di carriera (+21 per cento).
È possibile che i differenziali non discendano solo dalla scelta di migrare: ad esempio chi emigra potrebbe essere mediamente più capace e motivato di chi resta (un’ipotesi che forse sorprenderà il ministro Poletti ma che è spesso menzionata in letteratura). La pur lunga lista di variabili di controllo dei nostri modelli sulla carriera scolastica e universitaria potrebbe non catturare pienamente queste differenze. Tuttavia ci sembra molto probabile che le differenze riflettano, in misura rilevante, anche le differenti opportunità di realizzazione professionale che vengono offerte a chi decide di spendere la propria laurea in un altro paese, al confronto con chi resta in Italia. Del resto, nove laureati emigrati su dieci (89,6 per cento) dichiarano di essere partiti proprio per trovare lavori più qualificati.
Ci pare, insomma, che i dati raccontino qualcosa di significativo sulla drammatica incapacità del nostro paese di creare opportunità di lavoro qualificato, un problema che ci auguriamo appassioni il ministro del Lavoro almeno quanto i giudizi sul valore di chi abbandona il nostro paese.
Il a fait le tour de la terre, comme tatouage, mana, tabou et bien d’autres. Ce mot magique fait partie du patrimoine mondial. A Tahiti, il est au-delà des modes, des sexes, des classes sociales, au-delà du temps. Le paréo, pāreu de son appellation d'origine tahitienne, c’est le vêtement dans sa plus simple expression.
photo: Creative Commons
Un tissu d’environ 1m80 sur 1m10, savamment enroulé autour du corps, la tenue idéale pour tous les moments de la journée. Avant l’arrivée des Européens en Océanie, les pagnes des premiers Polynésiens étaient faits de tapa. Cette étoffe fabriquée à partir de fibres végétales tirées de l’écorce de certains arbres ou arbustes, assouplies par macération et battage, était utilisée comme tissu.
Ces pāreu anciens étaient décorés avec des pigments naturels, de dessins à main levée figurant des motifs géométriques ou végétaux ou bien souvent unis et sans décoration. Les cotonnades européennes ont d’emblée séduit les Polynésiens et ont été mises au goût du moment. Dessins et couleurs sont devenus les symboles des archipels qui les avait adoptés : les chemises sont hawaïennes, les pāreu sont tahitiens.
Toutes les splendeurs du fenua, la terre polynésienne, sont représentées sur ce merveilleux vêtement. Les fleurs aux couleurs éclatantes, les poissons aux reflets étincelants. Les motifs de tatouage s’y étalent ainsi que les cartes des îles et des atolls aux noms évocateurs. Les pāreu sont à la mode et se parent de franges, de broderies, s’enrichissent de sequins tintant à chaque mouvement. Le pāreu est unisexe.
Les hommes le nouent à la façon d’un short moulant qui leur permet de nager ou de monter aux cocotiers pour y chercher les précieuses noix. Les femmes l’adaptent à tous les moments de la journée et le gardent même quand la fraîcheur de la nuit se fait sentir. Il y a de multiple façons de s’en draper. Des livres entiers sont consacrés à cette savante opération.
Le pāreu se porte serré autour de la taille ou sur les hanches, drapé et noué derrière la nuque, attaché sur une épaule lorsqu'il devient robe longue. La coquetterie et l’ingéniosité sont infinies. Mais il se noue sans boucle, sans épingle, sans système d’aucune sorte. Il est serré et ajusté au rythme des mouvements durant la journée et il est mis à rude épreuve quand vient le soir et que toute l’énergie est dédiée à la « bringue » et à ses tāmure endiablés.
Les tableaux des peintres, les photographies, les cartes postales le mettent toujours à l’honneur tant il est présent dans le quotidien et évocateur de bien-être, d'aisance, de volupté et d'élégance.
Im Dunst eines weitgehend respektierten Waffenstillstands werden die Konturen eines neuen Syriens sichtbar. Die Teilung des Landes in mehrere verfeindete Zonen scheint unvermeidbar. Zone I dürfte Assadstan sein, das dicht besiedelte Kerngebiet zwischen Damaskus, Jordanien und Libanon, über Homs und Hama und die Provinz Latakia bis nach Aleppo reichend. Zone II wäre ein islamistisch regiertes Gebiet im Norden und Osten, das jetzt von islamischen Milizen und dem Daesh beherrscht wird. Zone III wäre das entlang der Grenze zur Türkei und dem Irak gelegene autonome Kurdengebiet.
Der Traum der Türkei, sich in Syrien eine eigene Zone auf Kosten der Kurden und des Daesh zu errichten, kann als gescheitert gelten. Das von Säuberungen geschwächte türkische Militär, dessen wehrpflichtige Rekruten wenig Kampfgeist zeigen, ist von den um ihre Existenz kämpfenden, kriegserfahrenen Daesh-Fanatikern und den Kurden böse gebeutelt worden; die deutschen Leopardpanzer der Türken hielten den russischen Abwehrwaffen des Daesh nicht Stand.
Bleiben also als wichtigste Trümmer des alten Syrien Zone I und Zone II. Die Zone II, die man auch Dschihadistan nennen könnte, wird voraussichtlich ein streng salafistisches Gebilde sein, das zwei Komponenten umfasst: die Dschihadisten vom Typ Al-Qaeda, die sich als stärkste Widerstandsgruppe erwiesen haben, und die überlebenden Kämpfer des Daesh, die nach der schrittweisen Zerstörung ihres Kalifats durch die Koalition, die Iraker und die Kurden eine neue Heimat suchen und bei den Vettern von Al-Qaeda finden werden.
Zone I, das unter russisch-iranischer Kuratel stehende Kernland der Assads, ist der Teil Syriens, der die profundeste Änderung durchmacht, wie wir das bereits 2013 erwartet haben:
“ Das Assad-Regime hat sich seit Jahrzehnten eine Strategie zu eigen gemacht, die auf die Praxis der Franzosen während der Mandatszeit zurückgeht, nämlich jeden Widerstand mit äusserster Brutalität nieder zu schlagen, einschliesslich der Auslöschung ganzer Bevölkerungsteile. Die 60.000 bisherigen Toten des Konflikts sind nach Assad'schen Masstäben vermutlich nur ein Vorgeschmack auf das, was eintritt, falls das Regime den Sieg erringt. Daran, dass Assad bereit ist, grosse Teile des Volkes zu opfern, kann nicht gezweifelt werden. Bürgerkriege, die mit solcher Härte geführt werden, gehen oft erst dann zu Ende, wenn ein Drittel der Bevölkerung tot ist. “
Dass Assad nicht nur "grosse Teile des Volkes opfert”, sondern auf eine Art von Genozid abzielt, wurde später klar. Im August 2016 schrieb die Rundschau:
“Bombardements von Krankenhäusern um zu verhindern, dass Verwundete kuriert werden, Bombardements von zivilen Vierteln mit Streubomben, um möglichst viele Zivilisten zu töten, Aushungern von belagerten Städten, Zerstörung von Wasserleitungen und Elektrizitätswerken, Behinderung von Hilfstransporten, Konfiszierung von medizinischem Material, damit die Kranken nicht versorgt werden können, angebliche Feuerpausen, die nicht eingehalten werden, Giftgas-Einsätze : eine Strategie, die sich gerade jetzt in Aleppo wieder manifestiert. Mangels eines besseren Ausdrucks kann man eine solche Strategie nur versuchten Genozid nennen.”
Ergebnis des Genozids ist die Entvölkerung des am meisten betroffenen Kriegsgebiets, also vor allem das Umland von Homs, der Wiege des islamischen Widerstands gegen die Assad-Herrschaft, aber auch das Umland von Damaskus, das Gebiet zur libanesischen Grenze hin, und – last but not least – Aleppo.
Entvölkerung ist ein relativer Begriff in einem Land wie Syrien, von dem es heisst:
“Wer die Hintergründe des Bürgerkriegs verstehen will, muss sich die Demografie ansehen. Syrien, ein prinzipiell armes Land mit grossen Wüstenzonen und ein bisschen langsam versiegendem Petroleum, leistet sich ein rekordnahes Bevölkerungswachstum. Seit 1935 hat sich die Bevölkerung auf 23 Millionen verzehnfacht. Erst seit 1995 ist die Geburtenrate von in Afrika üblichen Niveaus auf weniger als 30 Promille pro Jahr gesunken. Bis 1990 lag die Wachstumsrate der Bevölkerung stets über 30 Promille im Jahr, auch jetzt liegt sie noch über 20 Promille. Explosion ist in der Tat die beste Bezeichnung für Syriens demografisches Dilemma.”
Für Assad besteht also die Gefahr, dass das systematische Morden der frommen sunnitischen Bevölkerung umsonst war, weil sich binnen weniger Friedensjahre die Bevölkerung im Gefolge eines Nachkriegs-Babybooms rapide wieder auffüllen würde und seine Sippe irgendwann erneut gegen die Moslembrüder und ihre Gesinnungsfreunde kämpfen müsste.
Daher muss Assad verhindern, dass die im Ausland und vor allem die im Inland befindlichen Flüchtlinge wieder in ihre Heimat zurückkehren. Eine umfassende Kampagne, Flüchtlinge auszusperren, ist daher bereits seit Monaten im Gange. In den Tälern zwischen Damaskus und dem Libanon werden, wie der Guardian berichtete, die leerstehenden Häuser an Schiiten vergeben, die aus anderen Gebieten Syriens und aus dem Irak hergebracht wurden.
Der Irak, selbst ein Land mit grossem demografischen Überdruck, könnte ohne weiteres Hunderttausende Schiiten nach Syrien "exportieren”. Ihnen bietet Assadstan ein gelobtes Land: kostenlosen Grundbesitz, eine arabische Umgebung mit jahrtausende-alter Kultur und zahlreichen religiösen Schreinen, die den Schiiten heilig sind, wie etwa die Sayeda Zainab-Moschee in einem Vorort von Damaskus, in der nach schiitischem Glauben die Enkelin des Propheten und Tochter des schiitischen Religionsgründers Imam Ali, begraben ist.
Der Guardian zitiert libanesische Beamte, die verfolgt haben, wie in den vom Assad-Regime zurückeroberten Gebieten die Katasterämter systematisch abgefackelt wurden, damit heimkehrende Flüchtlinge kein Grundeigentum mehr geltend machen können. In Vierteln von Homs und an anderen Orten sei die Bevölkerung – so weit sie nicht geflohen war – vertrieben worden und Rückkehrern sei der Zugang verboten worden, weil sie nicht nachweisen konnten, dass sie dort gewohnt haben.
Drei Beteiligte des syrischen Kriegs sind daran interessiert, ein schiitisches Bollwerk gegen die Sunniten zu errichten: Assad als Alawit, einer Schia-nahen Sekte; die für ihn kämpfende Hezbollah, eine mächtige libanesische Schia-Miliz; und Assads Verbündeter, der schiitische Iran, der vor allem mit afghanischen Söldnern für Assad kämpft. Schiiten aus Afghanistan und Pakistan werden mit dem Versprechen eines Monatssolds von 500 Dollar und einem Aufenthaltsrecht geködert. Sie kämpfen in Syrien teilweise in der Fatemiyoun-Brigade, einer von iranischen Revolutionswächtern kommandierten Einheit, die sich in Aleppo und seinem Umland durch besondere Grausamkeit auszeichnete.
Den geflohenen Syrern bietet das neue Syrien wenig Grund zu Hoffnung. Wollen sie an ihren Heimatort zurückkehren, so haben sie die Wahl zwischen einem rachsüchtigen Assad-Regime, das sie nicht haben will, und einem dschihadistischen System, das die Scharia mittelalterlich anwendet und dem Takfir-Prinzip folgt, das jede religiöse Abweichung mit dem Tod bestraft. Eine Wahl zwischen Scylla und Charybdis.
Für Europa heisst das, dass Hunderttausende syrischer Flüchtlinge wohl da bleiben werden, wo sie jetzt sind, und dass möglicherweise weitere Tausende aus Syrien fliehen werden, wenn dort endlich ein Frieden der Erschöpfung herrscht. Das bedeutet das Ende der naiven Vorstellung europäischer Politiker, dass die meisten Syrer -- wie ehemals die Balkanflüchtlinge -- heimkehren würden, sobald Frieden eingetreten ist.
Ihsan al-Tawil
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Nun ist es offiziell, was Türkeikenner von Anbeginn vermuteten: der blutige Putschversuch vom 15. Juli 2016 wurde nicht von dem in Pennsylvania lebenden Prediger Fethullah Gülen gesteuert. Die Times kam in den Besitz eines geheimen Berichts des EU Geheimdienst-Zentrums (Intcen) vom 24. August 2016. Der Bericht widerspricht dem türkischen Präsidenten Recep Tayyip Erdogan, der Gülen als Urheber des Putsches bezeichnet. Stattdessen sei der Putschversuch von einer Reihe von Opponenten Erdogans und seiner AK-Partei veranstaltet worden, darunter Offizieren gülenistischer und kemalistischer Orientierung, sowie Opportunisten.
Es sei unwahrscheinlich, heisst es in dem Bericht, dass Gülen selbst eine Rolle in dem Umsturzversuch gespielt habe. Seine Leute seien in den Streitkräften, die eine Bastion der laizistischen Kemalisten waren, nur schwach vertreten gewesen.
“Es ist unwahrscheinlich, dass Gülen wirklich die Fähigkeit und die Mittel hatte, solche Schritte zu unternehmen”, heisst es in dem Bericht. “Es gibt keinen Beweis, dass die Armee... und die Gülenisten bereit waren, zusammen zu arbeiten, um Erdogan zu stürzen. Die Gülen-Bewegung hängt sehr locker zusammen und ist ziemlich weit von der säkularen Opposition und der türkischen Armee entfernt”, heisst es laut Times in dem Bericht.
Nach Ansicht europäischer Geheimdienste waren es Gerüchte einer bevorstehenden Säuberung der Streitkräfte, die den Putschversuch seitens gülenistischer Offiziere, der von Kemalisten unterstützt wurde, auslösten. Daran seien Offiziere beteiligt gewesen, die Erdogans Kurden- und Syrienpolitik ablehnten.
Der Bericht stellt auch klar, dass die dem 15. Juli folgende umfassende Säuberungskampagne bereits vor dem Aufstand des Militärs geplant war. “Die riesige Verhaftungswelle war bereits vorher vorbereitet worden.”
"After news about the INTCEN report was published by London’s The Times newspaper and the euobserver website earlier this week week, the Turkish Foreign Ministry issued a statement on Saturday, describing the report as “baseless, one-sided and ignorant claims.”
Hintergrund
Auslöser der jetzigen Türkei-Krise war eine 2015 mutmasslich von Gülen gesteuerte Aktion, Erdogan, seine Familie und einige seiner Minister wegen Korruption vor Gericht zu bringen.
Statt sich vor Gericht zerren zu lassen, drehte Erdogan den Spiess um und “reinigte” Polizei und Justiz von allen Elementen, die in den Korruptionsvorwurf verwickelt waren. Vermutlich mit einer false-flag-Operation trat er einen neuen Kurdenkrieg los und gewann dadurch die Wahl im September 2015.
Er musste jedoch durch den Korruptionsvorwurf erkennen, wie dünn das Eis war, auf dem er sich bewegte, und wie gefährlich Gülen ihm geworden war.
Mit dem Rücken an der Wand stehend, beschloss er, die ganze riesige Gülen-Bewegung in der Türkei – und möglichst auch im Ausland – auszurotten. Dass ein blutiger Kurdenkrieg Opfer fordert, dass Abertausende ihre Freiheit und ihre Existenz verlieren wúrden, und dass die türkische Wirtschaft, das Militär, die Polizei und die Sicherheitsdienste unter der enormen Reinigung leiden würden -- vom Entsetzen des Auslandes und Millionen anständiger Türken abgesehen -- nahm er billigend in Kauf. Hauptsache, er persönlich und seine Mission, die Türkei zu islamisieren, würden gerettet werden.
Der Putschversuch, der ihm ermöglichte, einen Ausnahmezustand zu verhängen, wirkte wie ein Brandbeschleuniger: Massnahmen, die normalerweise Jahre erfordert hätten, liessen sich nun binnen Tagen und Wochen erzwingen. Kein Wunder, dass Erdogan den Putsch als ein “Gottesgeschenk” begrüsste.
Der Geheimbericht spricht nicht nur Gülen frei, sondern befreit auch Erdogan*) von dem Verdacht, er habe den Putschversuch selbst organisiert. Dieser Verdacht war nach dem Putsch von Gülen geäussert worden und schien nicht wenigen Beobachtern plausibel.
Noch hat Erdogan das Ziel der Alleinherrschaft nicht ganz erreicht. Ein Referendum im Frühling soll Erdogans neue Präsidialverfassung absegnen. Man erwartet für die Tage vor der Wahl spektakuläre Terrorakte, um das Volk auf Erdogan einzuschwören. Damit rechnet auch Gülen, der sein langes Schweigen gebrochen hat um zu verkünden, dass er mit der Ermordung eines führenden Oppositionspolitikers rechnet, und dass man ihm, Gülen, die Schuld in die Schuhe schieben werde. Politiker beider Oppositionsparteien MHP und CHP seien in Gefahr.
Dass die Türkei unter der Gewalt von drei konkurrierenden, weitgehend kriminellen Banden -- Gülenci, Erdoganci und der Kurdenmiliz PKK -- leidet, ist tragisch. Selbst wenn das Volk die Präsidialverfassung ablehnen sollte -- was unwahrscheinlich ist -- wäre keine Rückkehr zu irgendeiner Form von Demokratie in Sicht. Das Jahrhundert des von Kemal Atatürk verordneten Laizismus ist vorbei; jetzt droht ein Jahrhundert des politischen Islam. Als ob das nicht schlimm genug wäre, bestraft der zornige Kalif von Rakka den werdenden Kalifen von Ankara mit Terrorakten.
Update
*) Offenbart sehen hohe NATO-Offiziere das anders. Sie verdächtigen Erdogan, den Putsch arrangiert zu haben, wie eine norwegische Seite berichtet.
«The senior officers, three- and four-star generals, and those who worked with Turkey for 30-40 years and who mentored Turkish officers for four or five years, say they do not believe that there was a coup. If the Turkish Armed Forces wanted to carry out a coup, they would have succeeded. That’s a tradition in Turkey,» said a NATO source, without a hint of irony"
"Some 80-90 per cent of Turkish officers who served in NATO were relieved of their posts, aldrimer.no has learned from reliable sources. Many of those who dared to return home were jailed and a significant number were killed, according to NATO sources.
«Turkish officers who still have contact with NATO said that Erdogan had been planning the so-called coup for a year and had a list of people he wanted out.” said a NATO source. «I have so far not met anyone who believes there was a real coup attempt,» said the source."
Update II
Oppositionsführer Kemal Kılıçdaroğlu ist der Ansicht, dass Präsident Erdogan eiligst seine Verfassungsreform haben will, weil er Angst hat, vor Gericht gestellt und verurteilt zu werden:
"Main opposition Republican People’s Party (CHP) Chairman Kemal Kılıçdaroğlu said on Wednesday that President Recep Tayyip Erdoğan wants a constitutional amendment package to be approved in an upcoming referendum in early April as he is afraid to be put on trial for crimes in which he and his family members were involved.
Speaking with Deutsche Welle (DW) on Wednesday, Kılıçdaroğlu said Erdoğan wants the package to be approved as soon as possible because he knows he will be convicted if he is put on trial.
“He wants to secure his future. He cares about himself more than he does about the people. … Erdoğan’s main strategy is based on the idea of ‘if something happens tomorrow and he is put on trial’,” he said."
Ihsan al-Tawil
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Bei Roms Müllabfuhr AMA bewerben sich so viele um einen Arbeitsplatz, dass die AMA sich Akademiker aussuchen kann. Doch das ist nur ein Teil der Wirklichkeit. Ein paar von der Polizei abgehörte Telefongespräche enthüllten nämlich, dass Jobs bei der AMA gekauft werden können.
Eine Dame, die sich für 17.000 Euro eine Arbeit als Müllkutscherin gekauft hatte. beklagte sich, weil man ihrem Gespons nicht für weitere 9.000 Euro einen Posten geben wollte, wo doch insgesamt 26.000 Euro genug Geld für zwei seien. Nicht nur Posten werden verkauft, auch für Beförderungen muss bei der AMA gezahlt werden, oder man muss Mitglied der Gewerkschaft CISL sein, deren Vertreter nicht nur die Personalpolitk der städtischen Organisation beherrschen, sondern angeblich auch die Ausschreibungen für den Kauf neuer Fahrzeuge profitabel steuern.
Ein Sumpf der Korruption?
Nein, eher die Norm in weiten Teilen Italiens. Gaetano Serrano, ein junger Unternehmer, ist von Neapel nach Spanien ausgewandert, um dem heimischen System zu entgehen. “Das Modell Italien lässt Dich glauben, dass ein Arbeitsplatz ein Luxus ist, während er doch ein Recht darstellen sollte.” Schon seit Jahrzehnten werden in Neapel unbefristete Arbeitsplätze in staatlichen Versorgungsbetrieben verkauft.
Genauso normal ist es, dass Unternehmer von Kollegen gefragt werden, “An wen zahlst Du?”, wie Serrano berichtet, ein Hinweis auf Erpressung durch mafiose Banden. Serrano weiss, wovon er spricht. Der junge Mann aus Capodimonte arbeitete in Neapel als Verkäufer in Wochenmärkten, als Versicherungsvertreter, als Maurer, Fabrikarbeiter, Kellner und Hochzeitsfotograf. Ein echt neapolitanischer Werdegang: ein Dutzend Berufe gelernt, keinen richtig. “Neunzig Prozent dieser Jobs bedeuten unterbezahlte Schwarzarbeit”, sagt Serrano. “Als ich noch in Neapel lebte, kannte ich einen Freund, der 20.000 Euro für eine unbefristete Arbeit in einem grossen Supermarkt zahlte, um ein Gehalt von 800 Euro im Monat zu erhalten.”
Wer meint, solche Auswüchse der Ausbeutung seien halt ein Symptom der Unterentwicklung des italienischen Südens, irrt. In Turin, der Industriestadt des Nordens, ist soeben ein Skandal aufgeflogen. Akademisch qualifizierte Krankenpfleger wurden in privaten Kliniken als Arbeiter angestellt. Tagsüber arbeiten sie als Pflegepersonal, nachts als Reinigungskräfte. “Alle Räume müssen sauber und wohlduftend gehalten werden, auch die Aufzüge müssen geputzt werden”, heisst es in der Dienstvorschrift. Bruttogehalt 1000 bis 1100 Euro.
Arbeit -- eine Kostbarkeit
Richtige Arbeit mit Dauer-Vertrag ist in Italien eine Kostbarkeit. Am besten schneidet laut einer neuen Studie Bozen ab, wo 71 Prozent der arbeitsfähigen Bevölkerung tatsächlich arbeitet. In Vibo Valentia in Kalabrien sind nur 34 Prozent der 15 bis 64-Jährigen beschäftigt. In Cosenza, ebenfalls in Kalabrien, sind 84 Prozent der jungen Frauen ohne Arbeit. Böse sieht es im Süden aus, was die Qualifikation der Arbeitskräfte anlangt. In Agrigent in Sizilien weisen nur 28 Prozent der Beschäftigten eine volle berufliche Ausbildung auf.
Widerstand gegen Ausbeutung und Klientelismus leisten viele Arbeitskräfte, indem sie sich mittels ärztlicher Atteste von den unangenehmen Aspekten ihrer Tätigkeit suspendieren lassen. In Palermo beispielsweise sind 270 Strassenreiniger von der Strassenarbeit befreit – sie schieben Dienst am Schreibtisch. In Kalabrien sitzt über die Hälfte der Mitarbeiter des sanitären Dienstes im Büro, ebenso wie die Hälfte des öffentlichen Schutzdienstes, der auch für den staatlichen Fuhrpark verantwortlich ist.
Ein Attest -- ich brauche ein Attest!
In ganz Italien sind 12 Prozent des staatlichen Sanitätsdienstes, rund 80.000 Personen, zumeist Frauen, von Teilen ihrer Arbeitspflicht befreit. Sie verstecken sich, wird gespottet. In Mailand gelang es 4 von 5 Inspektoren der Obst- und Gemüsemärkte, deren Arbeitszeit von 3 Uhr morgens bis 8 Uhr reicht, sich von der Nachtarbeit befreien zu lassen.
Ein Römer Beamter wurde gefragt, wie er es begründet, dass er seine Arbeitszeit vor allem in der Kaffeebar seines Amtes verbringt, wo er per telefonino seinen privaten Geschäften nachgeht. Empört bedeutet er dem Frager: "Beh, faccio la presenza!" Ungefähr übersetzt: "Ich leiste immerhin die Anwesenheit!"
Italiens Verwaltung und Italiens Wirtschaft – eine unendliche Geschichte.
Die Handelskammer von Palermo sucht zwecks Gründung einer Genosssenschaft 15 Schuhputzer (sciuscia im Dialekt , lustrascarpe in italienisch) für ein festes Gehalt von 1000 bis 1200 Euro pro Monat. Arbeitsplatz: Bahnhof, Flughafen, Amtsgericht, usw. Unter den Bewerbern "auch viele Akademiker mit Diplom".