Perché tante polemiche sul Memorandum of Understanding tra Italia e Cina? La firma di un paese fondatore della Nato e dell’Unione europea è un successo per la politica estera cinese. Per il nostro paese sono chiari i costi politici, meno i benefici. Governo in confusione

   A meno di dieci giorni dalla firma annunciata – e confermata – di un Memorandum of Understanding (MoU) tra Italia e Cina sulla Belt and Road Initiative, che avverrà nel corso della prima visita del presidente cinese Xi Jinping a Roma il 21 marzo, l’unica certezza è che la confusione regna sovrana, ovunque e a ogni livello.

   A cominciare dallo stesso governo e delle sue due anime: la Lega, nelle parole di Matteo Salvini, si dichiara scettica, nonostante il vero deus ex machina dell’operazione sia un suo esponente, il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, che risponde però a Luigi Di Maio, leader del M5s, molto meno sensibile alle esigenze della componente produttiva e lavorativa del paese.

   Sulla divergenza interna si innesta un conflitto di competenze a livello ministeriale e istituzionale, dal momento che il MoU presenta evidentemente tutte le caratteristiche e la natura di un documento di politica estera, sebbene con un formato insolito per una democrazia occidentale, e pertanto la Farnesina ne ha rivendicato la competenza rispetto al ministero dello Sviluppo economico.

   La confusione è stata accompagnata, e in parte causata, da una voluta disinformazione sulla natura e sui contenuti dell’accordo. Fino al 12 marzo, non si conosceva neanche una bozza dell’accordo, così vari esponenti del governo hanno potuto millantare per giorni che il Memorandum non fosse altro che un accordo economico e commerciale, per aumentare l’export italiano in Cina e gli investimenti cinesi in Italia, “dimenticando” peraltro che la politica commerciale è competenza dell’UE e non degli stati membri.

   Dopo la pubblicazione della bozza sul Corriere della Sera, Geraci ha infatti prontamente smentito quanto aveva detto sino ad allora, non potendo più nascondere la mancanza di competenza istituzionale del suo ministero. Da quando circola la bozza, però, la confusione è aumentata ancor di più. Al di là dell’aura apparentemente romantica di quella che i cinesi abilmente chiamano “iniziativa”, che ha un nome ufficiale – Belt and Road Initiative – ma che in Italia viene continuamente chiamata “nuova via della seta”, come a volerne sottolineare l’aspetto intrinsecamente benefico, la Bri è in realtà un progetto di sviluppo interno e internazionale con importanti connotazioni strategiche.

   Il 24 ottobre 2017 il perseguimento della Bri è stato inserito nella Costituzione cinese, che coincide con la Costituzione del Partito comunista cinese. È dunque oggi un obiettivo strategico di stato, non una mera iniziativa economica e commerciale. Include l’obiettivo di migliorare la connettività tra Cina ed Europa, attraverso reti di trasporto e logistica, ma accanto a obiettivi molto più estesi e strategici, come integrazione finanziaria, cooperazione nelle infrastrutture (non solo di trasporto ma anche energetiche), libero scambio, scambi culturali e di persone.

   I contenuti dell’accordo Cos’è il Memorandum of Understanding e perché l’imminente firma da parte dell’Italia crea tanto scompiglio? Si tratta di un documento di intesa (non un contratto, né un trattato, né un accordo) sugli ambiti della cooperazione bilaterale nei settori dei trasporti, infrastrutture, logistica, ambiente e finanza. Non ci sono obiettivi né contenuti precisi, ma espressioni vaghe, per esempio su un avanzamento delle relazioni politiche tra i due paesi firmatari. Come tutti gli altri MoU firmati dalla Cina, gli ambiti di cooperazione sono gli stessi cinque che costituiscono i risultati ufficiali previsti per la Bri: coordinamento delle politiche, connettività e infrastrutture, libero scambio, integrazione finanziaria e scambi culturali. Da una prima e rapida analisi della bozza concordata con l’Italia, ci sono differenze che non sembrano marginali.

   Alcune sono apparentemente sottili differenze di espressione che ne sottendono però di significative nella portata dell’influenza che il documento potrà esercitare. Per esempio, per quanto concerne le controversie, vale sempre il principio degli incontri amichevoli tra le due parti? Nel testo si parla di dialogo amichevole con incontri “diretti”. Come si collocano i tribunali Bri in questo contesto? In altri casi, invece, le differenze sono evidenti e mostrano l’intenzione di stabilire un’intesa più stretta. Insomma, secondo Chris Devonshire-Ellis, fondatore di Dezan Shira, il “MoU sembra largamente innocuo, ma contiene i semi di quello che potrebbe essere usato in futuro come strumento diplomatico nella forma di un appiglio a presunte intese già raggiunte sui temi inclusi nel documento”. E se l’interpretazione dei contenuti del documento è tolta dalla sfera di competenza dei tribunali internazionali per affidarla a un “contesto amichevole di consultazioni dirette”, è evidente il rischio di divergenze interpretative orchestrate per sollevare potenziali incidenti diplomatici.

   Tutte le perplessità diffuse dopo la pubblicazione della bozza hanno spinto il governo italiano a limare i contenuti politici del documento, quindi ancora oggi non è chiaro quale sarà la versione finale. Una firma che ci isola Al di là dei dubbi elencati, perché mai la firma italiana sarebbe diversa da quella degli altri tredici paesi europei che hanno già siglato il Memorandum? Paese fondatore dell’Unione e tuttora tra i pilastri dell’Europa unita, nonché membro fondatore della Nato, l’Italia sarebbe il primo paese del G7 a firmare un documento d’intesa con Pechino. Sin dal suo annuncio, la disponibilità dell’Italia ha fatto inalberare sia Washington, per i timori concreti di un’ingerenza cinese in settori strategici per la sicurezza nazionale (che non sono soltanto le infrastrutture digitali in prospettiva del 5G, ma tutte le infrastrutture di trasporto e logistica e le reti di distribuzione dell’energia in cui la Cina chiede una maggior presenza) e per le conseguenze inevitabili che avrebbe sul ruolo del nostro paese nell’alleanza Nordatlantica, sia Bruxelles, che da tempo cerca di costruire una posizione condivisa in Europa sul futuro delle relazioni economiche con Pechino.

   Non è vero, come si sente e si legge sulla stampa nazionale, che anche Francia e Germania siano in procinto di firmare. Non lo hanno mai considerato. Parigi ha concordato una dichiarazione congiunta che include scambi culturali e scientifici e firmerà una decina di accordi molto specifici e concreti durante la visita di Xi a Parigi, che segue quella romana. Perplessi sono anche coloro che sono disposti a ignorare o accettare le conseguenze geopolitiche di fronte a obiettivi concreti – e condivisibili – di aumenti dell’export italiano in Cina (e non tanto dell’interscambio, come spesso indicano i cinesi nei loro obiettivi bilaterali) e dei capitali cinesi investiti nei progetti infrastrutturali italiani. Nel documento non c’è nulla di concreto.

   In ogni caso, si sarebbe potuto procedere in modo diverso, come la Germania, inanellando collaborazioni e progetti comuni, strette di mano davanti a risultati mutualmente benefici e non a documenti fumosi. Anche con la firma del Memorandum, rimarranno la concorrenza interna e le discordie tra le diverse parrocchie italiche e mancherà sempre una visione nazionale.

   Un esempio della differenza di approccio tra Italia e Germania è dato dalle connessioni ferroviarie: a Duisburg, Angela Merkel ha stretto la mano a Li Keqiang all’arrivo del primo treno dalla Cina; a Mortara, il primo treno diretto a Chengdu è partito sotto gli occhi di pochi interessati, e le difficoltà logistiche e finanziarie della tratta sono state ignorate dal governo italiano. Il secondo treno non è mai partito.

   Quali rischi corre l’Italia, nell’immediato? Quello già concreto è l’isolamento in Europa. Come primo effetto politico, infatti, l’Italia ha votato contro lo schema per lo screening degli investimenti esteri nell’Unione, di cui peraltro è stata promotrice. Il decalogo di azioni e suggerimenti per la gestione delle relazioni con la Cina pubblicato il 12 marzo dalla Commissione europea arriva tardi, ma sempre in tempo utile per aiutare gli stati membri in decisioni troppo grandi per i singoli paesi. Potrebbe essere usato come leva per alzare di molto il livello della negoziazione con Pechino e, al contempo, salvare quel poco di reputazione che resta all’Italia in Europa.

Alessia Amighini -- Lavoce.info

 

“Wer die Zukunft der Menschheit sichern will, muss weiteres Wirtschaftswachstum verhindern”

   Wer gemütlich in einer geheizten deutschen Wohnung sitzt und die Autobus-Haltestelle vor der Tür hat, kann vermutlich gut über Sinn und Unsinn des Wirtschaftswachstums philosophieren. Preussisch-protestantischer Ethik liegt Verzicht zugunsten des grossen Gesamtwohls ohnehin nahe. Jörg Sommer hat als Vorstandsvorsitzender der Deutschen Umweltstiftung und Dozent an der Hochschule für Nachhaltige Entwicklung (Eberswalde) in einem Zeitungsartikel “ Die Wachstumslüge” (Süddeutsche Zeitung, 27.2.19) das Ende des Wachstums gefordert.

   Der Artikel beschreibt korrekt die Notlage des Planeten und der von ihm abhängigen Menschheit. Ausser Donald Trump und ein paar verbohrten Klimaskeptikern wird wohl jedermann seiner Beschreibung zustimmen. Warum aber die Verteufelung des Wachstums? Jörg Sommer ist kein Ökonom sondern ein erfolgreicher Kinderbuchautor, und wohl ein selbsternannter Ökologe. Seine Philippika gegen das Wachstum erinnert an den Rigorismus der Veganer, der Jihadisten oder der Bibelchristen.

   Sommer vergisst, dass sich ein Gutteil des Wachstums politischen Massnahmen weitgehend entzieht: das Bevölkerungswachstum. Wo die wirtschaftliche Entwicklung der demografischen nicht folgt, entstehen Armut und Hungersnöte – wie es gegenwartig wieder in Nordkorea sichtbar ist, wo die Bevölkerung kontinuierlich gewachsen ist von 17 Millionen 1980 auf mittlerweile 26 Millionen. Wer den wachsenden Bevölkerungen wirtschaftlichen Wachstumsstop verordnen will, spricht besser vorher mit dem Welternährungsprogamm und dem Hochkommissar für Flüchtlinge UNHCR.

   Selbst wenn man den demografisch vitalen Ländern eine Ausnahme vom Wachstumsstop zubilligen will, bleibt ein hypothetischer Wachstumsstop selbst in den demografisch stagnierenden oder schrumpfenden Ländern eine Massnahme von fragwürdiger Nützlichkeit.

   Warum gibt es überhaupt Wirtschaftswachstum pro Kopf, also unabhängig von der demografischen Entwicklung? Das beharrliche Wachstum von heute ist eine Erfindung der Neuzeit. Öfters in der Geschichte gab es Wachstumsphasen – gewöhnlich Blütezeit genannt – in denen Völker und Kulturen Reiche errichteten, Wissenschaft trieben, Lebensweise und Technik verbesserten. Und die Umwelt schädigten: wie beispielsweise die Hochkulturen am Mittelmeer ganze Länder für den Schiffbau abholzten und den Karst schufen. Aber nach den Hochkulturen kamen jedesmal Barbaren, die das Geschaffene zerstörten und mit Jahrzehnten negativen Wachstums den Zeiger wieder auf Null – oder nahe Null -- stellten. Der Karst, freilich, der bewaldete sich nie wieder.

   Erst seit dem 16. Jahrhundert wird in Europa ein Trend zu dauerhaftem Wachstum sichtbar, unterbrochen freilich von grossen Kriegen. Ab der Mitte des 19. Jahrhunderts beschleunigte sich das Wachstum, da es zunehmend institutionalisiert wurde. Universitäten erweiterten ihren geisteswissenschaftlichen Kern um Naturwissenschaften und Ökonomie. Technische Hochschulen entstanden. Private Initiativen zogen nach. Angewandte Forschung wurde begrüsst und gefördert. Nach dem II. Weltkrieg folgten zahreiche Länder dem Beispiel Europas, Amerikas und Japans. So entstand weltweit eine gewaltige Maschinerie, deren Sinn die Erzeugung von Fortschritt ist. Deren Ergebnis Wachstum ist. Mit jedem Abiturienten, mit jedem Mechatroniker oder Diplomkaufmann tritt ein potentieller Wachstumsträger ins Erwerbsleben.

   Dass das wirtschaftliche Wachstum der letzten zwei Jahrhunderte ressourcenintensiv und umweltschädigend verlief ist Folge einer kurzsichtigen Kostenrechnung. Die Griechen, Römer und Venezianer holzten ab, weil ihnen die langfristigen Kosten nicht bewusst oder gleichgültig waren. Das gleiche geschieht heute in Uganda, wo die Flüchtlinge aus Südsudan die Umgebung ihrer Lager abholzen. In Haiti hat die Armutsbevölkerung, die von Wirtschaftswachstum nur träumen kann, das Land so weitgehend von Bäumen befreit, dass laufend die fruchtbare Krume vom Regen ins Meer gespült wird.

   Global gesehen wird der Planet weiter laufend geplündert, wird die Atmosphäre mit schädlichen Gasen wie Methan und CO2 angereichert. Würde ein Wachstumsstop helfen?

   Wie ein Wachstumsstop wirkt, kann man am Beispiel Italiens sehen. Seit 2008 ist die Wirtschaft nicht mehr gewachsen, die Bevölkerung hat rund 30 Prozent ihrer Kaufkraft eingebüsst. Die akademische Jugend flieht ins Ausland. Die Industrieproduktion schrumpft. Die Infrastruktur zerfällt weil die Mittel für Reinvestitionen abgezweigt wurden, um Haushaltslöcher zu stopfen. Die Bevölkerung schrumpft, weil den jungen Leuten das Vertrauen in die Zukunft fehlt und weil immer mehr von ihnen in prekären Verhältnissen arbeiten. Rund 30 Prozent der Italiener verdienen laut Statistikamt ISTAT unter 10.000 Euro im Jahr und damit weniger als das von der laienhaften Regierung versprochene Bürgereinkommen. Ist diese Null-Wachstums-Situation besonders umweltschonend?

   Sicherlich sparen die Italiener hart, um über die Runden zu kommen. Aber umweltschonend ist die Lage nicht. In der maroden Trinkwasser-Versorgung Roms versickert 40-50 Prozent allen Wassers. Der öffentliche Nahverkehr benutzt klapprige, stinkende Diesel-Busse weil das Geld für Modernisierung fehlt. Ein grosser Teil der Privatfahrzeuge sind Treibstoffschlucker, weil sie alt und schlecht gewartet sind. Der miserable Zustand der Strassen und ewige, unvollendete Baustellen steigern den Treibstoffverbrauch. Wärme/Kälteisolierung von Gebäuden ist im Süden unbekannt. Dennoch ist Italien nach Deutschland und Grossbritannien das europäische Land mit dem höchsten Anteil an erneuerbaren Energien und das zweiterfolgreichste Land in der Energie-Verbrauchsminderung – vielleicht weil kostenbewusste Familien die Heizung drosseln.

   Trotz allen Anzeichen einer Rezession, die Italien derzeit erlebt, wird ihm von Brüssel ein Mini-Wachstum von 0,1 Prozent pro Jahr bescheinigt. Das bedeutet, dass selbst in Zeiten wirtschaftlichen Niedergangs am Ende der Sozialproduktsrechnung ein kleines Wachstum verzeichnet werden kann. Auch das seit vielen Jahren stagnierende Italien wird kontinuierlich durch importierten Fortschritt modernisiert. Die Digitalisierung, die ja wenig Investitionen erfordert, hat das Land rasant erfasst, vieles vereinfacht und verbilligt. Der Privatverkehr hat die meisten einheimischen Marken durch zuverlässigere Fahrzeuge aus Fernost und Nordeuropa ersetzt. Schnelle Personenzüge ersetzen inländische Flugverbindungen. So kompensiert Italien den wirtschaftlichen Niedergang durch weitgehend importierten Fortschritt, und unter dem Strich zeigt sich eben doch ein wenig Wachstum, das man freilich nicht als ein Zeichen wirtschaftlicher Stärke missverstehen darf.

   Das Beispiel Italiens demonstriert, dass Nullwachstum keine ressourcenschonende Option ist. Dass Italien trotz jahrzehntelanger Misswirtschaft immer noch irgendwie mitschwimmt in der Flotte der reichen Industrieländer ist vor allem dem Fortschritt zu danken, der anderswo erzielt und Italien zur Verfügung gestellt wurde. Ohne amerikanisches und chinesisches Digital-knowhow, ohne Handy und Smartphone ist Italien heute nicht mehr vorstellbar. Ohne die Myriade chinesischer Haushalts- und Krimskramsläden, die mitunter auf Sichtweite Italiens Städte zieren, wäre die Kaufkraft der Italiener noch geringer.

   Null-Wachstum würde auf Dauer die Rückkehr der Wirtschaft ins Mittelalter erfordern. Die existierende weltweite Fortschritts-Maschinerie produziert Tag für Tag Innovationen, Verbesserungen, Erleichterungen. Angewandte Forschung kann Leistungen erbringen, die an Wunder grenzen. Dass eine mittelgrosse Wirtschaft wie die Russlands serienweise Superwaffen produziert, die Amerika und Europa Angst einjagen, ist ebenso ein Beispiel wie die Aufrüstung des Iran und Nordkoreas – und die Bemühungen der Türkei, ihnen nachzueifern.

   Keine Forderung wie die von Jörg Sommer wird die Fortschrittsmaschinerie beirren. Täte sie es, so wären die Folgen jedoch enorm. Alle technischen Lehranstalten mússten schliessen, die Universitäten zur Erforschung der hethitischen Dichtung und zur Pandekten-Exegese zurückkehren. Homöopathie und Koranschulen würden den wissenschaftlichen Weltstandard repräsentieren. Nach ein, zwei Generationen gäbe es keine Fachleute mehr um Atomkraftwerke stillzulegen, Autos zu reparieren und ein abgestürztes Smartphone zu rebooten. Nicht nur die Wissenschaft, auch die Wirtschaft würde ins Mittelalter zurückkehren. Und die geheizte Wohnung mit dem Autobus vor der Tür bliebe kalt. Der Autobus käme nicht mehr, weil er von Zivilisationsflüchtlingen bewohnt wäre, Modell Soylent Green.

   Das Modell Italien zeigt, dass Null-Wachstum nicht hilft. Nur gezieltes Wachstum kann helfen, den Planeten aus der misslichen Lage zu befreien, in den ihn skrupellose Ressourcenvergeudung gebracht hat. Die internationale Forschungsmaschinerie wird Wunder vollbringen müssen, damit es gelingt, weltweit klimaneutral und ressourcenschonend zu wirtschaften. Erste Schritte in diese Richtung sind vollzogen, auf weitere kann man hoffen. Dass dabei Wachstum erzielt wird, kann nicht schaden. Im Gegenteil: Wachstum ist der Stimulus, den die Menschheit braucht, um sich für Anstrengungen zum Ressourcenschutz und zur Klimaneutralität zu belohnen.

    Selbstmord ist zwar eine wirksame, aber wenig überzeugende Alternative für den Ressourcenschutz.

Heinrich von Loesch

 

On December 7, 2018 the New York Times published an op-ed by Oliver Nachtwey titled
It Doesn’t Matter Who Replaces Merkel. Germany Is Broken

    The author, a professor of sociology at the University of Basel, sees Germany doomed (and with it Europe) after Ms. Merkel’s departure from the position of head of the Christian Democrat Party and the approaching end of her chancellorship. He cites a number of reasons for his claim – all well known. Growing job insecurity, expanding minimum wage sector, the middle class increasingly divided between upper deciles getting richer and a majority feeling menaced by social decline. These changes resulting in the loss of the traditional two-party politics, the backbone of Germany’s stability and resilience.

    However, for a country considered doomed, Germany is doing exceedingly well. “Happy Germany”(Glückliches Deutschland) was the headline of a recent newspaper article on a 2018 Nielsen report which measured peoples’ satisfaction with their living and job conditions, across countries. Germans are expecting a bright future, the report says; with an index of 106 their expectations range well above the European average of 87. The economy is booming, the labor market is governed by almost full employment and is close to emptying the migrant labor reserves of Eastern Europe and the Balkans. In many villages of Bulgaria and Romania only old people and children are left because adults have migrated to Germany and beyond.

    It is true that Germany has developed a large and growing low wage sector characterized by volatility of employment, exploitation and poverty, especially among single mothers or fathers. It is also true that immigrants, perhaps more accustomed to hardscrabble life, are increasingly competing with Germans for simple jobs in construction, transport, crafts and services.

    However, low wage part time employment is also popular among married women working to make some pocket money or finance the family’s premium automobile which they proudly use for hauling groceries and schooling children. Many retail stores are run by part time women who allow the employer to avoid hiring costly regular full time staff.

    Despite or because of the sprawling low wage sector, there is still plenty of hidden unemployment in Germany not shown by official statistics. The continuing trend toward fixed term employment and other precarious forms of employment is keeping workers and employees insecure and cautious. As a result, trade unions appear weak and the level of wages and salaries in Germany has stagnated in recent years.

    Since in France, Britain and Italy, wages have risen in line with productivity increases, Germany has therefore gained a relative advantage at the expense of its labor force. Still, Germans are expressing themselves satisfied with their job situation and showing optimism as regards the future.

    When West Germany got a new (undeserved?) lease on life after World War II, there existed no “middle class”, because nearly everybody was poor. During the following few decades, a new middle class took shape based on individual ability to survive hardship, not on social status, property or education. This new class appeared somewhat rough and ruthless, forming the image of the new Germany and its economic vigor.

    Since then normalization took its toll. A new upper crust formed fancying style and education, which pushed its offspring through university into posh jobs. As in prewar Germany, the scions of status, class and education again grabbed the opportunities at the expense of those not in a favorable starting position. The once fairly homogeneous middle class began to fall apart with the lower-income bracket sliding toward poverty, with their children not being able to afford enough education to qualify for and get access to top jobs. The class-less Germany of 1945 has thus moved all the way back to a highly stratified society, although not as fully class dominated as some other countries, e.g. France or Britain.

    This social transformation is reflected in German politics. After many decades of unchallenged rule by a mix of conservatives, socialists and liberals, Germans became weary of these old parties and their musical chairs game. First the liberals were ditched, then the socialists. The only survivors are now the conservatives of Ms Merkel and her potential successor (the lady with the complicated name).

    Still, it is wrong to assume that Germany will be going down the trash chute. Surprisingly, the Greens have survived Ms Merkel’s persistent efforts to groom her Conservatives to look greener than the Greens. The Greens managed to survive Merkel's cunning not because they succeeded to appear still greener than thou but because they became the party of the lower middle class. The Greens represent a credible answer to the desires and dislikes of this powerful group. They present themselves as located left of center without being aggressively socialist. They abhor liberalism without lacking economic reasoning. Their green agenda does not frighten the lower middle class and offers an antidote to the environmental and climate pessimism popular among half- and fully educated groups.

    According to a new poll conducted by Hamburg University, over two thirds of Germans are considering climate change an important issue which concerns them personally and directly and requires them to take action. Against this backdrop it is hardly surprising that the Greens succeeded in occupying the rank once enjoyed by the socialists and offering Germany again a stable, reliable middle class force to supplement the conservatives.

     Ms Merkel not only tried to make her CDU conservatives become greener than the Greens but also to look redder than the Socialists. Here she succeeded: the Social Democrats in Germany have become as hopelessly obsolete as they appear in France and Italy, leaving their end of the political spectrum to be absorbed by a radical left. Unintentionally however, Ms Merkel’s efforts to paint her conservatives in green and red camouflage dots opened up a gap at the right hand side of the spectrum. This gap was promptly filled by a new right wing party, Action for Germany (AfD), whose success is eating away at the conservative base of the electorate, especially in the eternally frustrated eastern part of Germany. .

    When in Italy the reformist center politician Matteo Renzi failed, he was succeeded by a firebrand rightwinger, Matteo Salvini, who is currently the de facto head of government. A recent poll in France indicated that the centrist Emmanuel Macron, if he fails, would be succeeded by the crypto-fascist Marine Le Pen. Germany seems to follow this trend by moving toward a center-right coalition government with the new AfD party, unless the Greens succeed in mustering enough strength to coalesce with the conservatives and keep the new right in opposition.

    For the time being, Germany appears pretty stable. Any CDU-Greens government without Ms Merkel is not likely to distinguish itself very much from its predecessors. For the AfD to enter government, two changes woukl have to take place. First, the party would have to rid itself of its powerful neo-Nazi wing and become more palatable to the critical German electorate. If the Nazis prevail, the party is likely to wither and eventually lose its grip on power. Another change, however, could boost the AfD: a global economic crisis. Any financial meltdown like in 2009 would turn the limelight on the economy and cast a shadow on the Green's enfatuation with climate. The AfD would rediscover its anti-Euro origins and travel on the souverainist ticket so successfully used by populist politicians in numerous countries, including the U.S. and Britain.

Heinrich von Loesch

 

 

Il governo sembra avere una lettura semplicistica del problema povertà. Il lavoro è senza dubbio la via d’uscita principale, ma i dati ci dicono che per un numero significativo di famiglie aumentare il numero di occupati potrebbe non essere così facile.

 

Reddito di cittadinanza e povertà

Secondo la lettura principale che ne dà il governo, il reddito di cittadinanza è una misura per accompagnare le persone fuori dalla povertà. Si dà loro un sussidio che perdono se rifiutano più di due offerte di lavoro. Lavoro e povertà sono visti come dimensioni alternative: se il beneficiario del trasferimento, grazie ai centri per l’impiego, troverà un lavoro, il problema della povertà sarà risolto. È una visione troppo semplicistica, perché in molte famiglie povere vi sono persone che lavorano.

La tabella 1 contiene la suddivisione delle famiglie in base al numero dei loro membri che lavorano. A sinistra, le statistiche sono relative a tutte le famiglie in povertà, mentre nella parte destra si riferiscono solo a quelle povere senza membri con almeno 60 anni. La povertà è definita come reddito inferiore al 60 o al 40 per cento del reddito mediano. La prima definizione è quella di povertà relativa Eurostat, la seconda è più severa e produce un numero di poveri simile a quello della povertà assoluta calcolata da Istat. Con qualche approssimazione, la linea al 40 per cento individua la platea interessata – in termini di numero di beneficiari attesi – dal reddito di cittadinanza. Definiamo per semplicità queste famiglie come povere assolute.

Considerando proprio la soglia più bassa, tra tutte le famiglie in povertà il 44 per cento ha membri occupati (40 per cento un occupato, 4 per cento due), mentre solo tra le famiglie senza membri anziani, cioè quelle più facilmente attivabili, la quota con almeno un lavoratore sale al 56 per cento. In circa la metà dei casi la povertà è dovuta alla mancanza di lavoro, ma nell’altra metà sembra dipendere dalla mancanza di un secondo reddito da lavoro.

Tabella 1 – Distribuzione delle famiglie povere per numero di lavoratori in famiglia

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In quante famiglie può aumentare il lavoro

Una conferma di questi dati proviene dalla variabile relativa alla low work intensity: in una famiglia c’è bassa intensità di lavoro se i suoi membri con età tra 18 e 59 anni (esclusi studenti fino a 24 anni) lavorano nel complesso meno del 20 per cento del tempo di lavoro potenziale. Tra le famiglie povere assolute senza membri anziani, solo il 50 per cento è a bassa intensità di lavoro. Ciò significa che nella metà dei nuclei in povertà assoluta i membri adulti sono già occupati per almeno il 20 per cento del loro tempo potenziale.

Vediamo dunque in quante famiglie povere senza membri anziani sarebbe possibile aumentare il numero di occupati. Dividiamole in due gruppi:

  • Famiglie in cui il numero delle persone che lavorano è uguale al numero delle persone 18-59. In queste famiglie non è possibile aumentare il numero dei lavoratori.
  • Famiglie in cui il numero delle persone che lavorano è inferiore a quello delle persone 18-59 anni.

Per le famiglie del gruppo 1 “il lavoro non basta”.

Tabella 2 – Suddivisione delle famiglie povere tra famiglie in cui NON è possibile aumentare il numero dei lavoratori (gruppo 1) e famiglie in cui è possibile (gruppo 2)

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La tabella 2 mostra che in un quarto delle famiglie povere non vi sono membri adulti occupabili e la percentuale è probabilmente sottostimata perché non basta avere l’età giusta per essere occupabili. Inoltre, tra le famiglie del gruppo 1 i membri adulti occupabili sono già attivi lavorativamente per il 70-80 per cento del loro tempo potenziale ed è difficile credere che tale intensità possa crescere con semplicità. Una persona con età 18-59, infatti, può non lavorare – del tutto o in parte del suo potenziale – non solo perché non riesce a (o non vuole) trovare un impiego, ma anche a causa di condizioni personali che le rendono difficile lavorare, ad esempio una cattiva condizione di salute, oppure la presenza in casa di familiari con pesanti invalidità che richiedono assistenza.

Definiamo in cattiva salute una persona che abbia risposto “molto male” alla domanda “come va la tua salute?” o che sia fortemente limitata nelle sue attività da problemi di salute. Assumiamo che una persona in cattiva salute non possa lavorare, se ora non lo fa già. Teniamo conto anche della presenza di invalidi in famiglia, assumendo che se ce n’è uno, allora vi sono bisogni di cura che impediscono di aumentare l’offerta di lavoro. Aggiungendo queste nuove condizioni, la percentuale di famiglie in cui il lavoro non può aumentare (gruppo 1) passa al 35 per cento sia per la povertà relativa che per quella assoluta (passerebbe al 30 per cento aggiungendo solo la condizione di cattiva salute individuale). Al Sud, dove la domanda di lavoro da parte delle imprese è già più bassa, la quota di famiglie con problemi ad aumentare il numero di occupati raggiungerebbe il 41 per cento (tabella 3).

Tabella 3 – Percentuale di famiglie in povertà assoluta che si trovano nel gruppo 1 (il numero di occupati non può aumentare) per area

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Il lavoro è senza dubbio la via d’uscita principale dalla povertà, ma questi dati ci dicono che in molte famiglie povere il lavoro è già presente, e che per molte aumentare il numero di occupati potrebbe non essere facile come si crede. Per le famiglie con membri “occupabili”, d’altra parte, il problema numero uno è la scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese, in particolare nel Meridione. Nelle dichiarazioni del governo i centri per l’impiego avranno un ruolo fondamentale nel favorire l’occupazione per queste famiglie, un’ipotesi discutibile perché ovunque il lavoro si trova di solito per altre vie. In ogni caso, non si vede come i centri per l’impiego possano diventare più efficaci: tutti condividono l’impressione che abbiano bisogno di essere riformati e potenziati anche con nuovo personale, però per quasi tutto il 2019 le assunzioni nella pubblica amministrazione saranno bloccate dal maxiemendamento alla legge di bilancio in approvazione. Aumentando il rischio che, anche ai poveri che potrebbero lavorare, arrivi solo denaro e non lavoro.

Massimo Baldini e Giovanni Gallo -- lavoce.info

 vista totale

 

 

    In den Jahrzehnten nach dem II. Weltkrieg war Italien bitter arm. Wie schon unter dem Faschismus zuvor mussten sich die Kreativität, Frömmigkeit und Kunstliebe des Volkes mit einfachsten Materialien begnügen und Raffinement durch Fleiss zu ersetzen versuchen. Berühmt sind die Laubsägearbeiten aus dieser Zeit und die Weihnachtskrippen.

    Rom besitzt nicht wie Neapel eine Strasse (S. Gregorio Armeno), die ganzjährig Krippen herstellt und verkauft. Roms Krippenkunst ist bescheiden, häuslicher Art.

    Die hier vorgestellte Krippe zeigt süditalienische Weihnachtsfolklore auf kleinstem Raum, nämlich unter einem Glassturz: Arte Povera eben. Ausgangspunkt: ein Glassturz, wie man ihn für Madonnen und Heilige verwendet, die Mindestform der Scarabattola, des Gehäuses einer Presepe, einer Krippe.  Es ist schon erstaunlich, wie vielfältig das Leben unter einem Glassturz sein kann!

    Die römische Weihnacht verrät ihren Ursprung im Leben der Abruzzen-Hirten, die in den Vor-Weihnachtstagen in die Stadt kommen und in den Strassen auf ihren Dudelsäcken spielen.

 

vetro

 

totaleluce

 

bambino

 

sacra famiglia

 

lato frontale

 

retro

 

donnepecore

 

lavandiera

 

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cucina

 

varipersonaggipecore

 

 

Frohe Weihnachten und ein gutes Neues Jahr!

 

 

Höhe: 42 cm

Alter: 1950-60

Fundort: Mercatino via Nomentana, Rom

Stil: Arte Povera

Beleuchtung: original