La lunga recessione italiana ha lasciato un forte malcontento in quasi tutte le classi sociali, compresi imprenditori e professionisti. Ma è aumentato anche il divario tra i diversi gruppi. Piccola borghesia e classe operaia sono le più scontente.
Effetti di una lunga crisi
Che effetti ha avuto, e ha ancora oggi, sugli strati sociali del nostro paese la lunga recessione dell’economia iniziata nel 2008? Quali gruppi e quali categorie ha colpito maggiormente? Alcuni studiosi e istituti hanno iniziato a porsi queste domande. Nella sua ultima relazione annuale, la Banca d’Italia ha messo in luce che la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, aumentata nel corso degli anni Novanta, “non ha subito variazioni apprezzabili” dopo il 2008. Andrea Brandolini ha mostrato che l’ultima crisi ha colpito soprattutto i più giovani e i lavoratori manuali. Giovanni Vecchi, in una relazione a un convegno Istat, ha sostenuto che a pagare il prezzo più alto sono state le fasce meno abbienti.
Che dire delle altre classi sociali? Come hanno vissuto e come vivono oggi la crisi e i suoi effetti sulla loro condizione gli italiani che ne fanno parte? I dati che l’Istat raccoglie dal 1993 sul livello di soddisfazione delle persone residenti nel nostro paese per la loro situazione economica ci permettono di dare una prima risposta a questi interrogativi. Il malcontento che rilevano non dipende solo dalla situazione obiettiva del lavoro e del reddito, ma anche dalle aspettative che le persone hanno e dai loro gruppi di riferimento, dal senso di privazione relativa che nasce dal confronto con questi.
Secondo lo schema usato dai sociologi (basato su due criteri: la situazione di lavoro e quella di mercato) vi sono oggi in Italia quattro grandi classi: la borghesia, la classe media impiegatizia, la piccola borghesia e la classe operaia. Ma all’interno di ciascuna vi sono delle frazioni. Nella classe operaia, vi è una netta distinzione fra gli occupati nell’industria e occupati nei servizi. Nella borghesia, da un lato vi è lo strato più piccolo dei dirigenti, dall’altro quello assai più ampio degli imprenditori e dei professionisti. Nel 2001, la percentuale dei soddisfatti per la loro situazione economica cresceva, come ci si poteva attendere, man mano che si saliva nella piramide sociale, passando dalla classe operaia alle due medie e alla borghesia (tabella 1). Ma da allora la situazione è notevolmente cambiata.
Tabella 1 – Non tutti i ricchi piangono Percentuale di residenti in Italia (da 15 anni) molto o abbastanza soddisfatti della propria situazione economica, dal 2001 al 2016, per classe sociale di appartenenza:
Fonte: Elaborazioni su dati archivi Istat
Vi è solo un gruppo sociale che non ha risentito per nulla della lunga recessione: quello dei dirigenti. La percentuale dei soddisfatti in questo strato ha subìto solo una lievissima diminuzione prima del 2008 ed è oggi la stessa del 2001. Il malessere e lo scontento sono invece aumentati fra gli imprenditori e i professionisti, a tal punto che, dal 2012, è avvenuto un sorpasso un tempo impensabile: la classe media impiegatizia ha superato, in termini di soddisfazione, gli imprenditori e i professionisti (figura 1). Di conseguenza, nell’ultimo quindicennio, vi è stata una divaricazione fra le due frazioni della borghesia riguardo alle emozioni degli uomini e delle donne che ne fanno parte, alle frustrazioni che ricevono, al senso di privazione, alla sensazione che provano di non farcela, all’impressione di essere stati dimenticati dai partiti politici, dal governo e dal parlamento.
Figura 1 – Dirigenti e impiegati hanno patito meno la crisi Percentuale di residenti in Italia (da 15 anni) molto o abbastanza soddisfatti della propria situazione economica, dal 2001 al 2016, fra i dirigenti, gli imprenditori e i professionisti, e la classe media impiegatizia
Insoddisfazione generalizzata
Il malessere e il malcontento sono cresciuti anche nella classe operaia raggiungendo il picco nel 2013. Sono diminuiti nei tre anni successivi, ma restano più alti che all’inizio del periodo considerato. Solo fra gli appartenenti alla piccola borghesia il peggioramento è stato maggiore. Per questo, nel 2013 e nel 2015, vi è stato un altro sorpasso un tempo impensabile: gli operai hanno superato i lavoratori autonomi nel livello di soddisfazione per la propria situazione economica (figura 2).
Figura 2 – Piccolo borghesi e operai uniti nell’insoddisfazione Percentuali di residenti in Italia (da 15 anni) molto e abbastanza soddisfatti della propria situazione economica, dal 2001 al 2016, tra la classe operaia e la piccola borghesia
Dunque, la lunga recessione ha lasciato un forte malcontento in quasi tutte le classi in cui si articola la società italiana, un’insoddisfazione che è diminuita negli ultimi tre anni, ma che resta molto maggiore che all’inizio del nuovo millennio. Il malcontento è cresciuto soprattutto nella piccola borghesia e nella classe operaia, ma ha raggiunto anche la frazione più ampia della borghesia, quella degli imprenditori e dei professionisti.
Nell’ultimo quindicennio è aumentato inoltre il divario fra le classi. Parlare di una polarizzazione sociale dei sentimenti, di una contrapposizione fra la felicità delle classi elevate e lo sconforto di quelle più basse, è sicuramente esagerato. È indubbio tuttavia che, in termini di malcontento, la piccola borghesia e la classe operaia sono oggi più lontane di un tempo non solo dai dirigenti, ma anche dagli imprenditori e dai professionisti.
It’s again the doomsayers’ season. With the first warm days, numbers of boat people from North Africa and Turkey are swelling and all sorts of experts are predicting that 2017 might exceed 2015 in total numbers of refugees and migrants arriving in Europe. Usually, these dire warnings are accompanied by appeals to politicians to start returning the boat people to where they came from, especially to Libya instead of unloading them in Italy.
The response of politicians is always the same: in order to return migrants to a country you need a government there disposed to accept them. This can’t be done since Libya has no government to speak of and no prospect of getting a government any time soon.
Thus far the European powers have not dared to discuss this conundrum. A few politicians thought the solution to the Libyan quandary was to split the country into three distinct unities: Tripolitania, Cyrenaica and Fezzan. As independent countries these provinces would be small enough to find their own governments. But what kind of governments? Muslim Brothers in Tripolitania, neo-Gheddafi style in the Cyrenaica, and al-Qaeda in Fezzan? Hardly a convincing solution.
But this is need not be the end of the road. Libya offers another option. The total absence of a government could serve as a source of inspiration. Other failed states such as Afghanistan and Somalia still retain some kind of government which controls at least part of the country. In Libya there is the artificial Fayez al-Sarraj government propped up by the United Nations which is all but powerless. There is a Muslim Brothers government spoon fed by Turkey in Tripolis and there is General Haftar’s government in Tobruk which is supported by Egypt, the Emirates and Russia. Three actors who claim to be a potential government without being credible.
In principle, the Western powers could now decide that Libya ceased to be a state and has become a no-man's land, a territory. The name Libya now describes a geographical region, not a state in need of a government. Anologous to Macedonia which is officially called FYROM (Former Yougoslav Republic of Macedonia) , Libya could be called FLJ “Former Libyan Jamahiriya” in reference to its old name when it was still a state in Gheddafi’s days.
Once this new no-man’s land has been internationally accepted as a political non-entity it needs a trustee to represent it internationally and fulfil some limited government functions. Obviously, this trusteeship would fall on the United Nations with its agencies UN Development Programme (UNDP) and the High Commissioner for Refugees (UNHCR). Several times in the past the UN has administered countries when governments were lacking. When Mozambique became independent in 1975 the Liberation Front FRELIMO was unable to run the country and handed it temporarily over to UNDP.
When in the 1960s the western part of New Guinea was to be transferred from the Dutch colonial regime to Indonesia which (wrongly) claimed ownership of this territory, the UN took care of the transition.
The agreement provided for the administration of West New Guinea (West Irian) to be transferred by the Netherlands to a United Nations Temporary Executive Authority (UNTEA), to be headed by a United Nations Administrator who would be acceptable to both parties and who would be appointed by the Secretary-General. Under the Secretary-General's jurisdiction, UNTEA would have full authority after 1 October 1962 to administer the territory, to maintain law and order, to protect the rights of the inhabitants and to ensure uninterrupted, normal services until 1 May 1963, when the administration of the territory was to be transferred to Indonesia.
So far, so good. West Irian, as it was called at the time, was UNDP country. The UNDP guesthouse in the capital Jayapura served as the country’s only hotel, and even the taxi service was operated by UNDP jeeps. Since the local Papuas hated the foreign Indonesians and refused to learn to speak Malay, a lot of unrest has plagued western New Guinea ever since. To keep a tab on hostilities and protect the UNDP staff, a UN Security Force was sent to the country.
The agreement also stipulated that the Secretary-General would provide a United Nations Security Force (UNSF) to assist UNTEA with as many troops as the United Nations Administrator deemed necessary.
A UN Security Force could be established for Libya to protect the work of the UN agencies. This security detachment would require a “robust mandate” from the Security Council in order to be able to control aggressive local militias and people smugglers.
Once the UN agencies are ready to enter FLJ, a place on the coast would be selected which offers a seaport and an airport. This place would be secured by the UN Force and serve as an international bridgehead in the unruly country. Shipwrecked migrants and refugees could be brought to this place; their asylum requests could be pre-processed there and, in the likely negative decision, they could be deported by airplane to their country of origin.
Faced with proof of the impossibility of making it to Europe and being offered a free trip home, most of the desperate and probably also destitute migrants are likely to accept the offer and return voluntarily.
This system, if it was applied by all actors in the Mediterranean busy saving boat people, would put an end to the illegal mass migration and to deaths by drowning. It would stop the work of the smugglers. Information that the maritime smuggling route is closed would quickly spread in Africa and the Middle East and discourage potential migrants in the same way as the closing of the Balkans route in 2016 interrupted the flow of refugees to Greece.
As a bonus, the presence and trusteeship of the United Nations in former Libya would dampen the fighting spirit of the local pseudo governments and militias and pave the way for better understanding. National pride hurt by the trusteeship would encourage compromises that need to be made in order to establish a common platform and form a government which could claim to rule all of former Libya and be able to bring back peace and order. This all-Libya government could ask for the UN trusteeship to be phased out.
A United Nations trusteeship in Libya? Surely some Security Council member would veto it. Perhaps Russia or China. Or an American president who hates the UN.
Heinrich von Loesch
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L’impatto della crisi è stato duro, ma già nel 2014 molte piccole e medie imprese (PMI) italiane hanno dato segnali di ripresa. I bilanci 2015 confermano il rafforzamento della crescita, anche nelle costruzioni. Il miglioramento congiunturale non risolve però il problema antico della bassa produttività.
Piccole imprese nei dati di bilancio 2014-2015
Esiste un nutrito numero di piccole e medie imprese che è ripartito e che già nel 2014 ha mostrato segnali positivi, confermati e rafforzati nel 2015. Il loro conto economico parla chiaro: i ricavi sono cresciuti a tassi tripli rispetto all’anno precedente (3,1 per cento contro 1,1 per cento), con ricadute positive sul valore aggiunto, aumentato a valori vicini al 4 per cento in termini nominali. I margini lordi, profondamente colpiti dalla crisi, sono in crescita per il secondo anno consecutivo a tassi di circa il 4 per cento, con una dinamica più favorevole per le piccole imprese rispetto alle medie.
Anche in termini di redditività il miglioramento è evidente: grazie a un costo del debito a livelli storicamente molto bassi, la redditività netta delle Pmi è tornata a livelli vicini a quelli del 2008. Il Roe, una misura del guadagno sul capitale investito, è aumentato dall’8 all’8,6 per cento, con risultati ancora migliori per le medie imprese (9,3 per cento), che pareggiano il livello delle grandi società.
Figura 1
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
L’aumento della redditività e il successo degli incentivi fiscali ha portato buone notizie anche sul fronte degli investimenti, che, dopo aver toccato il fondo nel 2013, sono tornati ad aumentare. Nell’ultimo biennio si evidenziano infatti segnali di inversione di tendenza, con una marcata accelerazione nel 2015, sia per le Pmi (dal 5,6 al 6,7 per cento) che per le grandi imprese (dal 4,9 al 6 per cento). Per le prime si tratta di un ritorno sui livelli del 2011, che per le seconde sono già stati ampiamente superati.
Miglioramenti finalmente anche nelle costruzioni
La ripresa è stata trainata da quasi tutti i settori dell’economia. L’industria, che aveva guidato l’inversione di tendenza nel 2014, continua nel trend positivo che viene agganciato dai servizi, con una crescita dei ricavi intorno al 4 per cento e del Mol (margine operativo lordo) di qualche decimale più alto. Per la prima volta dopo la lunga crisi, anche il settore delle costruzioni mostra segnali di miglioramento, con un ritorno alla crescita dei ricavi e, in misura maggiore, della redditività lorda. In controtendenza il comparto energetico, che risente della forte riduzione dei prezzi delle materie prime.
Figura 2
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
Ma la produttività continua a rimanere bassa
Nonostante la ripartenza, il “paziente Italia” continua a soffrire di un male sempre presente nel suo sistema economico e che la crisi ha contribuito ad acuire: la bassa produttività. Una questione che ha investito tutte le economie avanzate negli ultimi anni, ma che nel nostro paese è presente già da metà degli anni Novanta. Complessivamente, tra 2007 e 2014, il valore aggiunto prodotto dalle Pmi si è ridotto del 10,2 per cento in termini reali, seguito dal costo del lavoro sceso del 6,7 per cento. Dal 2009 in poi è anche diminuito in misura significativa il numero di dipendenti impiegati dalle Pmi (da 4,2 milioni a 3,8 milioni), aiutato dall’esodo delle imprese dal perimetro delle Pmi (circa 14mila aziende in meno). Il risultato di tutto ciò è un costo unitario del lavoro che, in termini reali, è passato da circa 38mila euro nel 2007 a 37mila nel 2014. Calo che però non si è tradotto in un guadagno in termini di competitività, a causa dell’andamento molto deludente della produttività del lavoro. Il valore aggiunto per addetto si è infatti contratto fino al 2012, per poi riprendersi nel 2013 e nel 2014. Nel complesso, però, la produttività delle Pmi si è ridotta di 7,7 punti percentuali, passando da 56mila euro per addetto nel 2007 a 52mila euro nel 2014.
Figura 3
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
Figura 4
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
Anche analizzando altri indicatori, il risultato non cambia. Una misura di competitività molto utilizzata è il Clup (Costo del Lavoro per Unità Prodotta), il rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto prodotto dal singolo lavoratore. Gli andamenti insufficienti delle due variabili che compongono l’indicatore hanno mantenuto il costo del lavoro per unità di prodotto delle Pmi stabile e su valori storicamente elevati tra 2009 e 2012, con una discesa graduale solo a partire dal 2013.
Sie kommen bei Nacht in kleinen, überladenen Booten. Brecher werfen Boote in die Luft und lassen sie krachend auf die nächste Welle fallen. Oder auch kentern. Selbst die, die schwimmen können, sind chancenlos in der Weite des Wassers, viele Meilen von der Küste entfernt. Skrupellose Schmuggler kennen kein Erbarmen. Erst wird gezahlt. Wer bei Abfahrt angesichts des überladenen Boots lieber dableiben und sein Geld zurück haben will, muss mit Hohn und Gewalt rechnen.
Nein, das ist nicht Libyen oder die türkische Küste. Dies ist der Indische Ozean. Siebenundsechzig Kilometer Wasser trennen eines der ärmsten Länder der Welt, die Komoren, von einem der reichsten, Frankreich, dessen Insel Mayotte das 101ste Departement ist, ähnlich Tahiti, Reunion, Martinique und Guadeloupe.
Ursprünglich gab es vier Komoreninseln. Sie waren zusammen mit dem benachbarten Madagaskar eine französische Kolonie. Irgendwann wurden die Komoren ein freier Staat, bestehend aber nur aus drei der Inseln. Die vierte, Mayotte, blieb aus welchen Gründen auch immer bei Frankreich und errang zuletzt den Status eines Übersee-Departements. Was enorme Vorteile bietet: man gehört zur EU (aber nicht zur Schengen-Zone). Man bekommt eine Verwaltung würdig eines Departements in Festland- Frankreich. Das bedeutet ein kleines Heer von Bürokraten, das nach dem Standard “Paris” plus X Prozent bezahlt wird und für relativen Wohlstand auf der Insel sorgt.
Mayotte Foto: Wikimedia Commons
Klar, Mayotte ist ein Magnet für die Komorer der anderen Inseln. Wenn sie in ihrer Armutswirtschaft mit vielen Kindern nicht mehr weiter wissen, träumen sie den Traum von Frankreich, von Mayotte. Aber wie dorthin kommen? Ein Visum ist teuer, zwischen siebzig und hundert Euro. Man bekommt ein Transitvisum, wenn man ein Ticket für einen Flug vom Flughafen Mayotte irgendwohin gekauft hat. Zum Beispiel. Aber die französische Verwaltung ist misstrauisch, wenn sich ein Komorer um ein Visum für Mayotte bemüht. Verständlich, denn angeblich sind bereits vierzig Prozent der Einwohner von Mayotte zugewanderte Komorer der anderen Inseln, die meisten von ihnen illegal. Dabei leidet die Insel an Wassermangel und kann sich angesichts ihrer hohen Bevölkerungsdichte weiteres Wachstum nicht leisten, weil sie im Müll erstickt.
In vielen Nächten stechen die Fischerboote, Kwasa-kwasa genannt, meist von der nächstgelegenen Insel, Anjouan, in See, überladen mit Kandidaten für illegale Einwanderung. Anjouan selbst ist übervölkert. Die Insel gilt als einer der am dichtesten bevölkerten Orte der Welt.
Anjouan Foto: Wikipedia
Wer es heil nach Mayotte schafft, wird nicht mit Blumen empfangen. Im Gegenteil, die Mahorais – wie man die Einwohner nennt – nutzen zwar die illegalen Arbeitskräfte von den anderen Inseln nach Kräften aus, verachten sie aber. Wenn ein Kwasa-kwasa kentert und die Passagiere ertrinken, feiern die Mahorais, wie es heisst. Sie lassen sich ihre Häuser von Komorern bauen, aber wenn das Haus fertig ist, denuzieren sie ihre illegalen Arbeiter bei der Polizei, damit sie deportiert werden und die Bauherrn nicht zahlen müssen, so klagen die Illegalen. Böses Blut gibt es auf beiden Seiten. Die Verwaltung deportiert aufgegriffene Illegale ohne Federlesens. Deswegen verstecken sich die Komorer, versuchen, nicht aufzufallen.
Die schlimmste Kontroverse zwischen Mahorais und Illegalen betrifft die Rolle der französischen Küstenwache. Die Behörden erklären, sie täten alles, um in Seenot geratene Kwasa-kwasa zu retten und Schiffbrüchige aus dem Wasser zu ziehen. Die Komorer behaupten das Gegenteil: die telegenen Aktionen der Küstenwache seien nur Schau. In Wirklichkeit führen die grossen Vedetten der Küstenpolizei so scharf und knapp an den Kwasa-kwasa vorbei, dass ihre Bugwelle die kleinen Boote überflute und absaufen lasse. Welche Version ist die richtige? Jedenfalls werden gerettete Schiffbrüchige nicht ins erhoffte Paradies gelassen, sondern von der Polizei sofort deportiert.
Rabiate Massnahmen, die an die an die fremdenfeindlichen Rezepte der italienischen Lega Nord erinnern, oder auch an Klagen über die Behandlung von Migrantenflössen durch die griechische Küstenwache. Wie auch immer, irgendwie gelingt es Frankreich, die Armutsmigration in den Komoren zu begrenzen. Wie auch im Kanal von Sizilien und der Ägäis werden Migranten von den Schleppern ausgeplündert und dem Meer preisgegeben. Da es unter ihnen keine Flüchtlinge gibt, die zu schützen ein moralisches Gebot wäre, bringt die Bevölkerung von Mayotte den Komorern wenig Sympathie entgegen. Die Einwanderer trifft die volle Härte der Illegalität, die höchstens durch viele Jahre unauffälliger Anwesenheit in Mayotte gemildert werden kann.
Am Ende steht immer die Hoffnung auf eine legale Aufenthaltserlaubnis.
John Wantock
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Nur spärlich fliessen Nachrichten vom Horn von Afrika nach Europa. Gewöhnlich handelt es sich um Hungersnöte (wie jetzt wieder) oder um Attentate in Somalia. Dabei ist die gesamte Region unruhig und in steter Veränderung.
Das kleine Djibouti ringt um seine Existenz. Immer drückender wird die Übermacht des 100-Millionen-Nachbarn Äthiopien. Äthiopien ist ein Binnenland. Ein blutiger Krieg mit Eritrea brachte der Regierung in Addis Abeba nicht den erstrebten Erfolg, nämlich die Einnahme des Rotmeer-Hafens Assab. Wie ein langer Riegel liegt Eritrea zwischen Äthiopien und dem Meer. Doch es gibt noch einen Zugang zum Ozean: Djibouti. Seit der Unabhängigkeit Eritreas ist Äthiopien mit 95 Prozent seines Aussenhandels auf Djibouti angewiesen.
Früher gab es nur eine Telegraphenlinie Djibouti-Addis, die Äthiopiens Hauptstadt mit der Welt verband. Wenn ein Pavian mit seinem Hinterteil auf einem Mast sass und sich sonnte, war Kurzschluss und Addis von der Welt abgeschnitten. Die hundert Jahre alte, französische Schmalspurbahn wurde erst 2016 durch eine moderne Bahn ersetzt, die China gebaut und mit 4 Milliarden Dollar finanziert hat. Seither ist Djibouti noch wichtiger für Äthiopien geworden.
map:CIA.gov
Am 3. März wurde bekannt, dass äthiopische Soldaten heimlich in Djibouti einmarschiert sind. Hat die Regierung sie wegen innerer Unruhen gerufen? Oder künden sie nur von dem de facto Ende der Unabhängigkeit des Kleinstaats?
Äthiopien ist nur eine der Mächte, die in Djibouti Einfluss nehmen. Die USA unterhalten direkt neben dem Flughafen mit Camp Lemonnier ihre grösste Militär- und Flottenstation in Afrika. Nicht genug, nun siedelt sich in Reichweite der Amerikaner auch China an mit einer Niederlassung. Beide, China und die USA haben ein Interesse daran, dass Djibouti unabhängig bleibt.
Das kleine Land von 790.000 Einwohnern wird nicht nur von Grossmächten bedrängt, auch intern brodeln Konflikte. Das Tiefland entlang der Rotmeerküste und dem Indischen Ozean ist von zwei traditionell verfeindeten Stämmen besiedelt, den äthiopischen Afar und den somalischen Issa. Djibouti wird zwar von Issa regiert, zählt aber eine starke Afar-Minderheit, die sich in letzter Zeit machtbewusster zeigt.
Es geht derzeit um die Nachfolge des Präsidenten Ismail Omar Guelleh, der bei der Wahl im kommenden April eine verfassungsrechtlich nicht erlaubte dritte Amtszeit anstrebt. Nach gewalttätigen Unruhen waren drei Oppositionsführer eingesperrt und erst am 20. Februar freigelassen worden.
Obwohl die Mehrheit der Afar nominell Moslems sind, liegen die Sympathien der grossen islamischen Mächte deutlich bei den Somalis, die zwei Drittel der Bevölkerung von Djibouti ausmachen. Dubais Regierung hat 2009 für ihre Gesellschaft DP World eine 50 Jahre gültige Lizenz erworben, den neuen Containerhafen Doraleh als dritten Überseehafen in Djibouti zu betreiben. DP World ist einer der grössten Hafenbetreiber der Welt. Der Investor Tarek bin Laden in Saudi-Arabien betreibt eher zögerlich das Projekt einer 27 Kilometer langen Brücke über die Meerenge Bab-el Mandeb, die Djibouti mit dem Jemen verbinden würde.
Die ehemalige Kolonialmacht Frankreich unterhält mit der Fremdenlegion in Djibouti ihren grössten Militär-Stützpunkt in der Welt. Auch Japan ist mit seinem weltweit einzigen Stützpunkt vertreten. Frankreich hat seine ex-Kolonie im Bürgerkrieg von Djibouti (1991-2001) erfolgreich gegen die Afar verteidigt und würde dies mutmasslich auch wieder tun: eine bislang wirksame Abschreckung äthiopischer Annexionsgelüste. Auch wenn man in Addis Abeba offen davon spricht, Djibouti in eine Art von Hongkong zu verwandeln und wirtschaftlich in Äthiopien zu integrieren, so kann doch Frankreich jederzeit seine Macht als Protektor des Kleinstaats ausspielen und Äthiopien in die Schranken verweisen. Addis Abeba versucht es daher mit einem "Zwei Systeme -- ein Land" - Modell und plant mehrere Häfen in der Provinz Obock, wo Djibouti direkt am Bab-el Mandeb liegt und Zugang zu beiden Meeren hat, dem Roten Meer und dem Indischen Ozean.
Äthiopien könnte aber auch Djibouti umgehen und in das Nachbarland Republik Somaliland einfallen, die Hauptstadt Hargeisa besetzen und Berbera zu seinem Hafen ausbauen. Historische Begründungen für eine solche Invasion lassen sich leicht finden. Wer wird Somaliland verteidigen? Die ehemalige Kolonialmacht Grossbritannien? Oder Ägypten und die Emirate, die in Berbera einen Stützpunkt einrichten?
Ein weiterer Akteur in Djiboutis Politik ist das benachbarte Eritrea. Obwohl zu 50 bis etwa 60 Prozent christlich, verfolgt das Land eine pro-moslemische Politik. Zum grossen Ärger der Westmächte und Äthiopiens unterstützt Eritrea traditionell die radikal-islamischen Aufständischen in Somalia. Dafür wird es von Saudi-Arabien, den Emiraten und vor allem Ägypten hofiert. Die Ägypter sorgen sich um ihre Wasserversorgung, die durch den Bau des äthiopischen Hochdamms GERD am Blauen Nil gefährdet ist. Eine angestrebte gemeinsame Kommandobasis in Eritrea würde es den Ägyptern erlauben, militärisch in unmittelbarer Nähe des Damms präsent zu sein, mit allen möglichen militärischen Folgen.
Die Araber sind erpicht, das Rote Meer zu einem arabischen Binnengewässer zu machen, und Djibouti als befreundeten Wächter des Bab-el Mandeb und als Überseehafen zu erhalten. Ihr Gegner ist auf der afrikanischen Seite die amerikanisch-äthiopische Allianz, auf der arabischen Seite beklagen sie die Einmischung Irans im jemenitischen Bürgerkrieg.
Eine reiche Auswahl an Gross- und Mittelmächten streitet sich derzeit um die Kontrolle Djiboutis. Eine Situation, in der sich das kleine Land keine inneren Streitigkeiten leisten kann. Doch ein Präsident, der nicht abtreten will, gefährdet das labile Gleichgewicht.