L’impatto della crisi è stato duro, ma già nel 2014 molte piccole e medie imprese (PMI) italiane hanno dato segnali di ripresa. I bilanci 2015 confermano il rafforzamento della crescita, anche nelle costruzioni. Il miglioramento congiunturale non risolve però il problema antico della bassa produttività.
Piccole imprese nei dati di bilancio 2014-2015
Esiste un nutrito numero di piccole e medie imprese che è ripartito e che già nel 2014 ha mostrato segnali positivi, confermati e rafforzati nel 2015. Il loro conto economico parla chiaro: i ricavi sono cresciuti a tassi tripli rispetto all’anno precedente (3,1 per cento contro 1,1 per cento), con ricadute positive sul valore aggiunto, aumentato a valori vicini al 4 per cento in termini nominali. I margini lordi, profondamente colpiti dalla crisi, sono in crescita per il secondo anno consecutivo a tassi di circa il 4 per cento, con una dinamica più favorevole per le piccole imprese rispetto alle medie.
Anche in termini di redditività il miglioramento è evidente: grazie a un costo del debito a livelli storicamente molto bassi, la redditività netta delle Pmi è tornata a livelli vicini a quelli del 2008. Il Roe, una misura del guadagno sul capitale investito, è aumentato dall’8 all’8,6 per cento, con risultati ancora migliori per le medie imprese (9,3 per cento), che pareggiano il livello delle grandi società.
Figura 1
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
L’aumento della redditività e il successo degli incentivi fiscali ha portato buone notizie anche sul fronte degli investimenti, che, dopo aver toccato il fondo nel 2013, sono tornati ad aumentare. Nell’ultimo biennio si evidenziano infatti segnali di inversione di tendenza, con una marcata accelerazione nel 2015, sia per le Pmi (dal 5,6 al 6,7 per cento) che per le grandi imprese (dal 4,9 al 6 per cento). Per le prime si tratta di un ritorno sui livelli del 2011, che per le seconde sono già stati ampiamente superati.
Miglioramenti finalmente anche nelle costruzioni
La ripresa è stata trainata da quasi tutti i settori dell’economia. L’industria, che aveva guidato l’inversione di tendenza nel 2014, continua nel trend positivo che viene agganciato dai servizi, con una crescita dei ricavi intorno al 4 per cento e del Mol (margine operativo lordo) di qualche decimale più alto. Per la prima volta dopo la lunga crisi, anche il settore delle costruzioni mostra segnali di miglioramento, con un ritorno alla crescita dei ricavi e, in misura maggiore, della redditività lorda. In controtendenza il comparto energetico, che risente della forte riduzione dei prezzi delle materie prime.
Figura 2
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
Ma la produttività continua a rimanere bassa
Nonostante la ripartenza, il “paziente Italia” continua a soffrire di un male sempre presente nel suo sistema economico e che la crisi ha contribuito ad acuire: la bassa produttività. Una questione che ha investito tutte le economie avanzate negli ultimi anni, ma che nel nostro paese è presente già da metà degli anni Novanta. Complessivamente, tra 2007 e 2014, il valore aggiunto prodotto dalle Pmi si è ridotto del 10,2 per cento in termini reali, seguito dal costo del lavoro sceso del 6,7 per cento. Dal 2009 in poi è anche diminuito in misura significativa il numero di dipendenti impiegati dalle Pmi (da 4,2 milioni a 3,8 milioni), aiutato dall’esodo delle imprese dal perimetro delle Pmi (circa 14mila aziende in meno). Il risultato di tutto ciò è un costo unitario del lavoro che, in termini reali, è passato da circa 38mila euro nel 2007 a 37mila nel 2014. Calo che però non si è tradotto in un guadagno in termini di competitività, a causa dell’andamento molto deludente della produttività del lavoro. Il valore aggiunto per addetto si è infatti contratto fino al 2012, per poi riprendersi nel 2013 e nel 2014. Nel complesso, però, la produttività delle Pmi si è ridotta di 7,7 punti percentuali, passando da 56mila euro per addetto nel 2007 a 52mila euro nel 2014.
Figura 3
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
Figura 4
Fonte: Rapporto Cerved Pmi 2016
Anche analizzando altri indicatori, il risultato non cambia. Una misura di competitività molto utilizzata è il Clup (Costo del Lavoro per Unità Prodotta), il rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto prodotto dal singolo lavoratore. Gli andamenti insufficienti delle due variabili che compongono l’indicatore hanno mantenuto il costo del lavoro per unità di prodotto delle Pmi stabile e su valori storicamente elevati tra 2009 e 2012, con una discesa graduale solo a partire dal 2013.
Nur spärlich fliessen Nachrichten vom Horn von Afrika nach Europa. Gewöhnlich handelt es sich um Hungersnöte (wie jetzt wieder) oder um Attentate in Somalia. Dabei ist die gesamte Region unruhig und in steter Veränderung.
Das kleine Djibouti ringt um seine Existenz. Immer drückender wird die Übermacht des 100-Millionen-Nachbarn Äthiopien. Äthiopien ist ein Binnenland. Ein blutiger Krieg mit Eritrea brachte der Regierung in Addis Abeba nicht den erstrebten Erfolg, nämlich die Einnahme des Rotmeer-Hafens Assab. Wie ein langer Riegel liegt Eritrea zwischen Äthiopien und dem Meer. Doch es gibt noch einen Zugang zum Ozean: Djibouti. Seit der Unabhängigkeit Eritreas ist Äthiopien mit 95 Prozent seines Aussenhandels auf Djibouti angewiesen.
Früher gab es nur eine Telegraphenlinie Djibouti-Addis, die Äthiopiens Hauptstadt mit der Welt verband. Wenn ein Pavian mit seinem Hinterteil auf einem Mast sass und sich sonnte, war Kurzschluss und Addis von der Welt abgeschnitten. Die hundert Jahre alte, französische Schmalspurbahn wurde erst 2016 durch eine moderne Bahn ersetzt, die China gebaut und mit 4 Milliarden Dollar finanziert hat. Seither ist Djibouti noch wichtiger für Äthiopien geworden.
map:CIA.gov
Am 3. März wurde bekannt, dass äthiopische Soldaten heimlich in Djibouti einmarschiert sind. Hat die Regierung sie wegen innerer Unruhen gerufen? Oder künden sie nur von dem de facto Ende der Unabhängigkeit des Kleinstaats?
Äthiopien ist nur eine der Mächte, die in Djibouti Einfluss nehmen. Die USA unterhalten direkt neben dem Flughafen mit Camp Lemonnier ihre grösste Militär- und Flottenstation in Afrika. Nicht genug, nun siedelt sich in Reichweite der Amerikaner auch China an mit einer Niederlassung. Beide, China und die USA haben ein Interesse daran, dass Djibouti unabhängig bleibt.
Das kleine Land von 790.000 Einwohnern wird nicht nur von Grossmächten bedrängt, auch intern brodeln Konflikte. Das Tiefland entlang der Rotmeerküste und dem Indischen Ozean ist von zwei traditionell verfeindeten Stämmen besiedelt, den äthiopischen Afar und den somalischen Issa. Djibouti wird zwar von Issa regiert, zählt aber eine starke Afar-Minderheit, die sich in letzter Zeit machtbewusster zeigt.
Es geht derzeit um die Nachfolge des Präsidenten Ismail Omar Guelleh, der bei der Wahl im kommenden April eine verfassungsrechtlich nicht erlaubte dritte Amtszeit anstrebt. Nach gewalttätigen Unruhen waren drei Oppositionsführer eingesperrt und erst am 20. Februar freigelassen worden.
Obwohl die Mehrheit der Afar nominell Moslems sind, liegen die Sympathien der grossen islamischen Mächte deutlich bei den Somalis, die zwei Drittel der Bevölkerung von Djibouti ausmachen. Dubais Regierung hat 2009 für ihre Gesellschaft DP World eine 50 Jahre gültige Lizenz erworben, den neuen Containerhafen Doraleh als dritten Überseehafen in Djibouti zu betreiben. DP World ist einer der grössten Hafenbetreiber der Welt. Der Investor Tarek bin Laden in Saudi-Arabien betreibt eher zögerlich das Projekt einer 27 Kilometer langen Brücke über die Meerenge Bab-el Mandeb, die Djibouti mit dem Jemen verbinden würde.
Die ehemalige Kolonialmacht Frankreich unterhält mit der Fremdenlegion in Djibouti ihren grössten Militär-Stützpunkt in der Welt. Auch Japan ist mit seinem weltweit einzigen Stützpunkt vertreten. Frankreich hat seine ex-Kolonie im Bürgerkrieg von Djibouti (1991-2001) erfolgreich gegen die Afar verteidigt und würde dies mutmasslich auch wieder tun: eine bislang wirksame Abschreckung äthiopischer Annexionsgelüste. Auch wenn man in Addis Abeba offen davon spricht, Djibouti in eine Art von Hongkong zu verwandeln und wirtschaftlich in Äthiopien zu integrieren, so kann doch Frankreich jederzeit seine Macht als Protektor des Kleinstaats ausspielen und Äthiopien in die Schranken verweisen. Addis Abeba versucht es daher mit einem "Zwei Systeme -- ein Land" - Modell und plant mehrere Häfen in der Provinz Obock, wo Djibouti direkt am Bab-el Mandeb liegt und Zugang zu beiden Meeren hat, dem Roten Meer und dem Indischen Ozean.
Äthiopien könnte aber auch Djibouti umgehen und in das Nachbarland Republik Somaliland einfallen, die Hauptstadt Hargeisa besetzen und Berbera zu seinem Hafen ausbauen. Historische Begründungen für eine solche Invasion lassen sich leicht finden. Wer wird Somaliland verteidigen? Die ehemalige Kolonialmacht Grossbritannien? Oder Ägypten und die Emirate, die in Berbera einen Stützpunkt einrichten?
Ein weiterer Akteur in Djiboutis Politik ist das benachbarte Eritrea. Obwohl zu 50 bis etwa 60 Prozent christlich, verfolgt das Land eine pro-moslemische Politik. Zum grossen Ärger der Westmächte und Äthiopiens unterstützt Eritrea traditionell die radikal-islamischen Aufständischen in Somalia. Dafür wird es von Saudi-Arabien, den Emiraten und vor allem Ägypten hofiert. Die Ägypter sorgen sich um ihre Wasserversorgung, die durch den Bau des äthiopischen Hochdamms GERD am Blauen Nil gefährdet ist. Eine angestrebte gemeinsame Kommandobasis in Eritrea würde es den Ägyptern erlauben, militärisch in unmittelbarer Nähe des Damms präsent zu sein, mit allen möglichen militärischen Folgen.
Die Araber sind erpicht, das Rote Meer zu einem arabischen Binnengewässer zu machen, und Djibouti als befreundeten Wächter des Bab-el Mandeb und als Überseehafen zu erhalten. Ihr Gegner ist auf der afrikanischen Seite die amerikanisch-äthiopische Allianz, auf der arabischen Seite beklagen sie die Einmischung Irans im jemenitischen Bürgerkrieg.
Eine reiche Auswahl an Gross- und Mittelmächten streitet sich derzeit um die Kontrolle Djiboutis. Eine Situation, in der sich das kleine Land keine inneren Streitigkeiten leisten kann. Doch ein Präsident, der nicht abtreten will, gefährdet das labile Gleichgewicht.
John Wantock
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Das Beste, was die Bundesregierung jetzt tun könnte, wäre, möglichst viele türkische Spione zu verhaften. Schade, dass man die ihre Landsleute ausspionierenden Imame des DITIB in die Türkei ausreisen liess. Deutschland braucht türkische Spione, die es eventuell gegen Deniz Yücel tauschen könnte. Nur auf dem Wege des klassischen Agententauschs besteht eine Chance, den in der Türkei inhaftierten Welt-Korrespondenten frei zu bekommen.
Die Affäre der abgesagten türkischen Minister-Kundgebungen in Deutschland hat Präsident Recep Tayyip Erdoğan zu jenem Wutausbruch verleitet, in dem er Yücel einen Spion, Agenten und Freund der kurdischen Terrortruppe PKK nannte. Dieser Wutausbruch hat Yücels Schicksal besiegelt, denn kein türkischer Staatsanwalt oder Richter wird es wagen, Yücel anders als Erdoğan zu beurteilen. Mit langjähriger Haftstrafe bis zu lebenslänglich ist zu rechnen. Nach endloser Untersuchungshaft, wie üblich.
Nicht genug: die ultrakonservative Partei MHP der Grauen Wölfe verhilft Erdoğans AK-Partei zur absoluten Mehrheit im Parlament unter einer Bedingung: der baldigen Einführung der Todesstrafe. Warum?Weil Parteiführer Devlet Bahçeli den inhaftierten PKK-Chef Abdullah Öcalan hinrichten lassen will. Das ist seit langem der Herzenswunsch der MHP-Partei. Ist die Todesstrafe erst eingeführt, wer garantiert, dass sie nicht auch angeblichen Spionen, Verrätern und PKK-Sympathisanten droht?
Wahrscheinlich ist, dass Präsident Erdoğan nach allem, was geschehen ist, an Yücel ein Exempel statuieren wird. Aus Prinzip. Um zu zeigen, dass ihm deutsche Proteste herzlich gleichgültig sind. Und Berlin? Ohne türkische Spione wird es schwer sein, für Yücel das Schlimmste zu verhüten.
Überhaupt Berlin. Man kann den Eindruck gewinnen, dass die deutsche und europäische Politik in ihrer Einschätzung der Türkei ein paar Monate, wenn nicht Jahre, hinter der Wirklichkeit zurück geblieben ist. Man will mit Ankara im Gespräch bleiben, heisst es. Man will den Faden nicht abreissen lassen. Auf technischer Ebene sollen die Beziehungen normal bleiben. Und so weiter. Vogel Strauss-Politik.
Die Türkei von heute hat mit der, die wir kannten, wenig gemein. In Ankara kämpft ein Mann um sein politisches Überleben. Entweder er gewinnt die ganze Macht und wird dadurch unverletzlich, oder er verliert und wird durch Korruptions- und Amtsmissbrauchs-Prozesse bedroht. Dieser Existenzkampf eines Einzelnen verknüpft sich nahtlos mit dem Existenzkampf einer Partei, mehr noch einer Volksbewegung: dem Islamismus der Moslem-Bruderschaft.
Nach hundert Jahren ihrer Geschichte stehen die Brüder endlich an der Schwelle zur absoluten Macht in einem der wichtigsten sunnitischen Länder – in der Türkei soll ihnen gelingen, was in Ägypten, Libyen, Tunesien und Syrien scheiterte. Ihre Version des Gottesstaats ist zum Greifen nahe und das Volk zieht mit, wie es scheint. Keine Rebellion wie in Ägypten, nur ein zahnloses Militär.
Doch der bisherige Erfolg der Erdoğan-Rettungskampagne forderte Opfer. Das erste war der ehemalige Präsident Abdullah Gül, ein auch im Ausland geschätzter, moderater AKP-Politiker. Ein weiteres Opfer war Professor Ahmet Davutoğlu, der für Erdoğans Geschmack zu pro-europäisch agierte. Die jetzige Crew repräsentiert Erdoğans inneren Zirkel. Sein Premierminister Binali Yildirim ist der engste Vertraute. Seit 2002 wird er verdächtigt, ein Mehrer der Finanzen des Erdoğan-Clans zu sein, der Prozente von den riesigen Infrastruktur-Projekten einsammelte, mit denen Erdoğan die Türkei seit Jahren beglückt. Aussenminister Mevlüt Çavuşoğlu ist AKP-Gründungsmitglied und ein Hardliner, der sich nicht scheut, eine Wahl zu unterbrechen, wenn sie nicht nach seinem Gusto verläuft. Er meinte, die Türkei könne die NATO verlassen, wenn sie nicht (im Kampf gegen den Terror) zu Hilfe käme.
An Islamisten dieses Kalibers wird sich Berlin die Zähne ausbeissen. Wenn es denn überhaupt zu beissen versucht. Für die Moslembrüder auf dem Weg zur Macht, zum Gottesstaat iranischen Typs, sind deutsche Befindlichkeiten jedenfalls fernliegend. Selbst der Niedergang der Währung und der Wirtschaft kann die Islamisten nicht beeindrucken: Rezession wäre nur ein Kollateralschaden. Wirtschaftlicher Druck aus Berlin oder Brüssel würde vermutlich achselzuckend hingenommen werden.
Übrigens, die Regierung in Ankara hat kürzlich zwei weitere Grenzübergänge zum Iran geöffnet.
Ihsan al-Tawil
Update
Aussenminister Mevlüt Çavuşoğlu verdächtigt die Bundesregierung, in der kommenden Abstimmung über die Verfassungsänderung Druck zugunsten eines "Nein"auszuüben und deswegen die türkischen Ministerauftritte zu sabotieren. Deutschland sei ein "total repressives System", sagte Çavuşoğlu.
“There are all kinds of pressure,” he told daily Hürriyet. “They try to cancel all our programs by putting pressure on them in an unprecedented way. It is an entirely repressive system. In Hamburg, they attempted to cancel the registration of the wedding hall. But I’ll go. Nobody can stop me.”
Private property owners, hotels, and wedding halls have had their contracts canceled as they are under pressure, Çavuşoğlu claimed.
He also echoed President Recep Tayyip Erdoğan’s comparison of the measures to the “Nazi era,” suggesting that the German aauthorities were applying pressure for a “no” vote in the upcoming referendum.
In Hamburg sprach Çavuşoğlu im türkischen Generalkonsulat.
Er warf den deutschen Behörden eine "systematische Unterdrückung" der Türken vor und verbat sich zudem "Lektionen in Menschenrechten und Demokratie" seitens der Bundesrepublik.
Update II
Wird das Referendum abgesagt?
Die frühere Abgeordnete, Innenministerin und Kandidatin für die Führung der MHP-Partei Meral Akşener erwartet, dass die Mehrheit der Türken mit "Nein" stimmen würde -- falls die Regierung das zulässt. Sie sagte in einem Fernseh-Interview, sie habe unbestätigte Informationen erhalten, dass die Regierung die auf den 16. April angesetzte Abstimmung unter einem Vorwand absagen wird, wenn sich eine Mehrheit der Nein-Stimmen abzeichnet.
Meral Akşener konkurrierte mit Devlet Bahçeli um die Führung der MHP, wurde aber von Bahçeli, der von Erdoğan unterstützt wurde, ausgebootet und führt nun die Opposition.
Dennoch gibt es wenig Grund, an dem Ergebnis des kommenden Referendums zu zweifeln. Kanzlerin Merkel hat zwar die Überwachung der Abstimmung durch Beobachter der OSZE gefordert, doch bislang ist davon nichts zu hören. Der Umstand, dass das Referendum von einer Regierung veranstaltet wird, die alle Hebel bedient, damit das gewünschte "Ja"-Ergebnis erzielt wird, lässt vermuten, dass dieses Ergebnis auch eintreten wird, egal wie die Bevölkerung abstimmt.
Nein-Lager in der Türkei wird behindert. Die OSZE beobachtet die Abstimmung über das Präsidialsystem in der Türkei mit zwölf Teams und 20 weiteren Mitarbeitern in Ankara. Doch bereits jetzt äußern die Beobachter Kritik: Das Nein-Lager werde im Wahlkampf behindert und eingeschüchtert, sagte der deutsche Leiter der Mission.
Update V
Nach SPIEGEL-Informationen hat der türkische Präsident Erdogan zur Freilassung von inhaftierten Deutschen in der Türkei einen direkten Gefangenenaustausch angeboten. Der türkische Präsident Recep Tayyip Erdogan hat der Bundesregierung bei den Geheimverhandlungen um die deutschen Gefangenen in der Türkei einen heiklen Deal in Aussicht gestellt.
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Recep Tayyip Erdogan ist als Absolvent einer Koranschule nicht sehr gebildet. Würde man ihn bitten, den Begriff “Faschist”zu definieren, käme wohl wenig mehr als “böse”, “schlecht” und "Italien" heraus.
Dennoch benutzt er den Begriff fleissig, noch gepfeffert mit Varianten wie “Nazi”, “Neo-Nazi” und dergleichen. Die Absurdität dieser Epithete bei Anwendung auf die Niederlande entgeht ihm völlig weil er weder die Geschichte kennt, noch eine klare Vorstellung der Bedeutung dieser Begriffe hat.
Also was trieb den Ober-Türken, diese unverstandene Keule zu schwingen?
Der Zorn. Der masslose Zorn, dass jemand es wagt, sich ihm, dem von Gott berufenen Errichter des Staates der Frommen in den Weg zu stellen. Ihn -- den Vollender der türkischen Geschichte und Abschaffer des gottlosen Irrwegs des Laizismus -- in letzter Minute vor dem Triumph der AK-Partei zu behindern, ist für Erdogan nicht anderes ein Teufelswerk der Feinde des einzigen Glaubens.
Es liegen ihm Worte auf der Zunge, von denen er weiss, dass er sie nicht benutzen darf, zumindest noch nicht: "Christen", "Gottlose", "Feinde des Propheten". Sie haben sich verschworen, ihn an der Errichtung des Hauses Gottes zu hindern, so glaubt er. Nicht nur er, auch seine Millionen Anhänger glauben an eine Verschwörung der Christen und Feinde der Türkei.
Er weiss, er darf die Niederländer, Deutschen und Österreicher nicht Christen nennen, denn theoretisch ist er ja immer noch Politiker, nicht Oberpriester einer Erlösungssekte. Also sucht er nach einem Ersatzbegriff, der möglichst negativ und zugleich politisch klingt. “Kommunisten”?, “Rassisten”? Nein, besser “Faschisten”oder “Nazis”.
So poltert er ohne zu ahnen, wie lächerlich er sich macht mit diesem Fehlgriff in die Mottenkiste der Geschichte. Die Niederländer und die anderen Europäer sollten die Schimpfereien eines Ungebildeten nicht allzu ernst nehmen: sie sollten verstehen, dass er sie eigentlich “Christen” nennen möchte und sich nur nicht traut. Noch nicht.
-- ed
Update
"Europa werde schon lernen, wie man mit der Türkei umzugehen habe, sagte (Aussenminster) Cavusoglu weiter. Ansonsten werde die Türkei es Europa beibringen. "Ihr werdet von Eurem befehlenden Diskurs absehen. Die Türkei befiehlt", sagte er. Die Türkei sei die "Umma", die weltweite Gemeinschaft von "zwei Milliarden" Muslimen. "Deshalb könnt Ihr mit der Türkei nicht im Befehlston sprechen. Ihr müsst anständig reden, Ihr könnt um etwas bitten."
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“Sie schreien vor Freude”, wenn sich ihr Schlauchboot dem Rettungsschiff nähert. “Dann sitzen sie brav und still, einer neben dem anderen, auch 24 Stunden lang, auf dem Oberdeck des Schiffs. Sie sind glücklich, weil sie leben. Weil sie glauben, dass ein neues Leben beginnt. Arme Kerle!”
“Die Hölle der Migranten” schildert Rosamaria Vitale, eine italienische Chirurgin und Psychotherapeutin, die seit Jahren in den Flüchtlingszentren arbeitet.
“Es wird nie humanitäre Korridore für alle geben. Wahrscheinlich sollte es sie auch nicht geben. Wohl nur 20 Prozent der Asylbewerber bringen die Voraussetzungen für internationalen Schutz mit.”
Dr. Vitale, eine Blondine mittleren Alters aus Varese, beschreibt, wie vor Ausbruch der Migrationskrise 2011 die Einwanderung noch geregelt ablief. Wie sie damals in einem Auffanglager mit nur 400 Migranten aus einem friedlichen und saturierten Libyen arbeitete – 400, von denen keiner scheiterte, die sich alle in Italien integrieren konnten. In jenen Tagen hatten Italien und Europa viel zu bieten. Heute tut man zwar, was man kann, was Italien bieten kann. "Wenn wir damals eine Krise hatten, so haben wir heute einen Alptraum, die Hölle der Migranten, für die es inzwischen nichts mehr zu erhoffen gibt.”
Sie spricht von riesigen, mit europäischen Mitteln erbauten Konzentrationslagern in Libyen, wo die Migranten aus den Ländern südlich der Sahara von immer zahlreicheren kriminellen Banden eingesperrt werden bis ihre Verwandten die 1000 bis 1500 Euro Lösegeld bezahlen.
Das Bild, das Vitale von der Lage in Libyen skizziert, widerspricht der in Europa gängigen Vision. Sie berichtet von einer seit Monaten aktiven libyschen Küstenwache, die mit ihren Schnellbooten die in Zuwara, Sabrata und Zawia ablegenden Migrantenboote abfängt, bevor sie internationale Gewässer erreichen, und alle Leute zurückbringt in die Lager, aus denen sie gekommen sind.
Vitale berichtet auch, dass die Schiffe der europäischen Hilfsorganisationen Frontex und EUNavfor ihre Aktionen verringert und sich von den libyschen Gewässern entfernt hätten.
Frontex beklagt sich andererseits, dass die Schiffe der privaten Hilfsorganisationen immer näher an Libyen auf Migrantenboote lauern und die Schmuggler deswegen immer seeuntüchtigere Vehikel mit immer mehr Passagieren auf die Reise schicken.
Nicht nur, dass laut Frontex an Libyens Küste hunderttausende Migranten auf Überfahrt nach Europa warten: weitere Migranten aus Westafrika seien auf dem Weg zur Küste.
In dieser Lage gibt Rosamaria Vitale Italien und Europa einen praktischen Rat: Sie möchte eine Gegenwanderung organisieren, nämlich die Rück-Entsendung in Italien eingewanderter Migranten in ihre Heimatländer, vor allem in jene, in denen es weder Krieg noch Todesopfer gibt, “damit sie ihren Freunden und Verwandten berichten”, wie es wirklich auf der Reise und in Europa zugeht “und sie überzeugen, auf keine Fall eine Reise zu beginnen, bei der sie ein grausames Schicksal erwartet, egal, wie sie die Reise angehen."